Il grande Gatsby - F. Scott Fitzgerald
IL GRANDE GATSBY
F. SCOTT FITZGERALD
Francis Scott Fitzgerald
Il Grande
Gatsby
traduzione a cura di:
Ferruccio Russo
Edizioni Scientifiche e Artistiche
Indice
Il Romanzo
LAutore
La Traduzione
Capitolo Primo
Capitolo Secondo
Capitolo Terzo
Capitolo Quarto
Capitolo Quinto
Capitolo Sesto
Capitolo Settimo
Capitolo Ottavo
Capitolo Nono
9
17
31
35
55
71
91
109
125
139
171
187
9
«La sua vita era stata confusa e disordinata...
ma se poteva ritornare a un certo punto di partenza
e ricominciare lentamente tutto da capo,
sarebbe riuscito a scoprire qual era la cosa che cercava.»
I l grande Gatsby (titolo originale: The Great Gatsby) è un
romanzo dello scrittore statunitense Francis Scott Fitzgerald
pubblicato per la prima volta a New York il 10 aprile 1925 e
definito da T.S. Eliot il primo passo in avanti fatto dalla narrativa
americana dopo Henry James.
Ambientato a New York e a Long Island durante lestate del 1922,
Il grande Gatsby è il più acuto ritratto dellanima delletà del jazz,
con le sue contraddizioni, il suo vittimismo e la sua tragicità.
La storia, che seguendo la tecnica di Henry James viene raccontata
da uno dei personaggi, narra la tragedia del mito americano che aveva
retto il paese dai tempi dello sbarco a Plymouth Rock e può essere
considerata lautobiografia spirituale di Fitzgerald che, ad un certo
punto della sua vita, chiuso con lalcolismo e con la vita da playboy,
voleva capire quali fossero stati gli ostacoli che avevano fatto inabissare
la sua esistenza.
Il Romanzo
Il Grande Gatsby
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In questo libro, come scrive il suo biografo Andrew Le Vot1, Fitzgerald
riflette, meglio che in tutti i suoi scritti autobiografici, il cuore
dei problemi che lui e la sua generazione dovettero affrontare... In
Gatsby, pervaso comè da un senso del peccato e della caduta, Fitzgerald
assume su di sé tutta la debolezza e la depravazione della natura
umana.
Lo stile
Scritto utilizzando in modo magistrale la tecnica dello scorcio,
Fitzgerald riesce ad intrecciare gli avvenimenti presenti con quelli
passati in nove brevi capitoli. Le scene sono concatenate rapidamente
con un distacco obiettivo e la prosa, scorrevole e modulata,
indica un cambiamento nella narrativa dello scrittore che si avvicina
alla forma di Henry James e Joseph Conrad.
I temi
Numerosi sono i temi dellopera, tra i quali spiccano quelli della
mancanza di affetti autentici, del crollo dei miti, del peccato e
dellinferno. Ma il tema principale del romanzo è quello della solitudine,
della incomunicabilità e dellindifferenza. Nessuno comunica
alle lussuose feste di Gatsby, che sono invece solo entusiastici
incontri tra gente che non si conosceva neanche di nome.
Il più solo di tutti i personaggi è appunto Gatsby nella cui lussuosa
villa si svolgono quelle feste favolose alle quali egli non partecipa.
Tutto ciò che avviene nella sua casa avviene per il solo scopo di
poter far venire da lui Daisy.
1 Andrew Le Vot, F. Scott Fitzgerald. A Biography, New York, Doubleday 1983, p.142.
Il Romanzo
11
Gatsby è il prototipo delluomo solo, da quando lo si vede per la
prima volta nellora del crepuscolo fermo sul prato della sua lussuosa
villa mentre guarda con gli occhi fissi la luce verde che si riflette
sul pontile della casa di Daisy dallaltra parte della sponda, al momento
del suo funerale. Mentre Gatsby è nella bara a Nick sembra
di udire la sua voce che gli dice supplicando di fargli venire qualcuno
perché così, da solo, non ce la fa più. Nick promette e dice:
«Ti porterò qualcuno, Gatsby. Sta tranquillo. Abbi fiducia in me e io
ti porterò qualcuno
» ma non venne nessuno. E sono proprio
queste tre parole a sottolineare lestrema solitudine di Gatsby.
Nessuna parola arriva da Daisy, non cè un fiore.
Lindifferenza, che aveva caratterizzato i personaggi di Daisy e Tom,
«Erano tipi sbadati, Tom e Daisy sfracellavano cose e persone e poi
si ritiravano nella loro ricchezza o nella loro sbadataggine o qualsiasi
altra cosa li tenesse insieme e pretendevano che altri rimediassero ai disastri
che avevano lasciato in giro
» raggiunge lapice nella scena del
funerale dove la pioggia aumenta il senso di tristezza e di solitudine.
Il senso di solitudine, lindifferenza nei confronti degli altri, è dovuta
al fatto, come sostiene Rollo May2 che Quando si perde la
capacità di vivere i propri miti, si perdono anche i propri dèi.
Nel romanzo vi è un simbolo che Fitzgerald usa per dimostrare
questa teoria. Si tratta degli occhi del dottor T. J. Eckleburg che si
scorgono su un grande cartellone pubblicitario a metà strada tra
New York e West Egg.
George Wilson sconvolto dal dolore per la morte della moglie
fissa quel cartellone e non riesce ad allontanare lo sguardo da quegli
occhi azzurri e giganteschi e a Michaelis, suo vicino di casa
che gli dice che dovrebbe avere una chiesa alla quale rivolgersi in
momenti così tragici, egli, parlando tra di sé, mormora:
2 Rollo May, Il richiamo del mito, Rizzoli 1991 pag. 122.
Il Grande Gatsby
12
«Dio sa cosa hai fatto, qualsiasi cosa tu abbia fatto [...]. In piedi,
dietro di lui, Michaelis rimase scioccato nel constatare che stesse fissando
gli occhi del dottor T.J. Eckleburg appena emerso, pallido ed
enorme, dalle tenebre che si dissolvevano.»
Non serve che lamico gli dica che si tratta solamente di un cartellone
pubblicitario, Wilson continua a fissarlo sconvolto.
Il cartellone che Wilson rimane a fissare è solamente un ingrandimento
fotografico simbolo di un mondo che confonde la fotografia
con la realtà, dove il denaro ha usurpato il ruolo di Dio e la pubblicità
e il commercio trionfano.
Gatsby si può considerare come un eroe romantico nella sua
accezione più lata e più profonda. Egli è infatti un personaggio
destinato alla sconfitta, appare inadeguato al gretto mondo che lo
circonda. È però proprio qui che risiede la sua grandezza: Gatsby
infatti vive solo per un sogno ed è perfino disposto a morire per
esso, un sogno chiamato Daisy. La reggia, le macchine, il denaro,
nulla ha importanza; paradossalmente la statura morale e spirituale
del personaggio è immensa finendo per nascondere il suo passato
oscuro e criminoso. Gatsby incarna la più istintiva purezza della
natura umana, è proprio il suo desiderio così genuino che non gli
darà scampo portandolo a una sorta di autodistruzione. La fine
di Gatsby è infatti emotivo-passionale, la morte fisica ne è solo
un semplice corollario. Degno epitaffio per una personalità tanto
fuori dal comune sarebbero alcune delle parole che Sallustio riserva
a Catilina: Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta
semper cupiebat (Sallustio, De coniuratione Catilinae). Il suo
insaziabile animo anelava sempre alle cose smisurate, fantastiche,
sempre troppo grandi.
Il Romanzo
13
La fortuna dellopera
Il romanzo venne tradotto per la prima volta in Italia nel 1936 da
C. Giardini con il titolo Gatsby il magnifico e nel 1950 da Fernanda
Pivano con il titolo Il grande Gatsby.
Il libro venne rappresentato sulle scene nel 1926 dal drammaturgo
Owen Davis e in opera musicale nel 1999 da John Harbison.
Da esso furono tratte anche tre versioni cinematografiche: la versione
muta del 1926, la versione del 1949 del regista Elliott Nuget
interpretato da Alan Ladd e quella del 1974 con la regia di Jack
Clayton e la sceneggiatura di Francis Ford Coppola interpretato da
Robert Redford e Mia Farrow.
Una quarta versione cinematografica è uscita nelle sale italiane il
16 maggio del 2013 a firma del regista Baz Luhrmann con Leonardo
Di Caprio e Carey Mulligan. Questa pellicola ha inaugurato il
66° Festival di Cannes.
Precedenti edizioni italiane
Francis Scott Fitzgerald, Gatsby il magnifico, trad. di Cesare Giardini, collana I
romanzi della palma n. 89, Mondadori, Milano, 1936, pp. 84 pp.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Fernanda Pivano, collana
Medusa n. 255 (poi ne I capolavori della Medusa, 1970), Mondadori,
1950, pp. 193 pp.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad, di Fernanda Pivano, collana Il
bosco n. 31, Mondadori, 1958, pp. 180 pp.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Fernanda Pivano, collana
Oscar n. 35, Mondadori, 1965, pp. 182 pp. (260 pp. dalla ed. 1970 con
introduzione).
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Fernanda Pivano, in Opere,
collana I Meridiani, Mondadori, 1972, pp. ?-?.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Fernanda Pivano, collana
Biblioteca Mondadori, Mondadori, 1974, pp. 203 pp.
Il Grande Gatsby
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Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Fernanda Pivano, collana Oscar
classici moderni n. 5, Mondadori, 1988, XVI-182 pp. ISBN 9788804493044.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, a cura di Tommaso Pisanti, collana
GTE n. 27, Newton Compton, Roma, 1989, pp. 186 pp.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, a cura di Alberto Cristofori, collana
La bottega del lettore con 1 fascicolo di strumenti per lanalisi del testo (47
pp.), Bruno Mondadori, Milano, 1993, pp. 173 pp. ISBN 8842430706.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, con acquarelli di Hans Hillmann, ed.
fuori commercio, Olivetti, Ivrea, 1995, pp. 124 pp.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Fernanda Pivano, collana I
miti n. 42, Mondadori, 1996, pp. 220 pp. ISBN 8804418338.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, a cura di Gianfranca Balestra, trad.
di Roberto Serrai, collana Letteratura universale Marsilio n. 254, Marsilio,
Venezia, 2011, pp. 430 pp. ISBN 9788831707701.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, introduzione di Alessandro Piperno,
trad. di Fernanda Pivano, collana La Biblioteca di Repubblica. I grandi della
letteratura n. 11, Gruppo Editoriale LEspresso, Roma, 2011, pp. 191 pp.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, introduzione di Walter Mauro, trad.
di Bruno Armando, collana GTE n. 670, Newton Compton, 2011, pp. 192
pp. ISBN 9788854124479.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, introduzione e trad. di Massimo Bocchiola,
collana I grandi romanzi BUR, Rizzoli, Milano, 2011, pp. 218 pp.
ISBN 9788817050647.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Alessio Cupardo, collana Classici
tascabili n. 27, Dalai, Milano, 2011, pp. 205 pp. ISBN 9788860739759.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Fernanda Pivano, collana
ET n. 1672, Einaudi, Torino, 2011, pp. 162 pp. ISBN 9788806208301.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Franca Cavagnoli, collana
UEF n. 2227, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 230 pp. ISBN 9788807822278
ISBN 9788807900235.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, prefazione di Sara Antonelli, trad. e
postfazione di Tommaso Pincio, collana Minimum classics, minimum fax,
Roma, 2011, pp. 246 pp. ISBN 9788875213008.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Nicola Manuppelli, collana
Originals, Mattioli 1885, Fidenza, 2012, pp. 180 pp.
Il Romanzo
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Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, introduzione di Walter Mauro, premesse
di Massimo Bacigalupo, Giancarlo Buzzi e Walter Mauro, in I grandi
romanzi e i racconti, collana Mammut n. 117, Newton Compton, 2012, pp.
?-?. ISBN 9788854141049.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Bruno Armando, collana
Live n. 2, Newton Compton, 2013, pp. 125 pp. ISBN 9788854151420.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, trad. di Fernanda Pivano, Oscar
Mondadori, Milano, 2013, pp. 199 pp. ISBN 9788804632160.
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17
«A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere.»
(Francis Scott Fitzgerald, Tenera è la notte)
Francis Scott Key Fitzgerald (Saint Paul, 24 settembre 1896
Hollywood, 21 dicembre 1940) è stato uno scrittore e
sceneggiatore statunitense, autore di romanzi e racconti. È
considerato uno fra i maggiori autori dellEtà del jazz e, per la sua
opera complessiva, del XX secolo.
Faceva parte della corrente letteraria della cosiddetta Generazione
perduta, un gruppo di scrittori americani nati negli anni 1890 che si
stabilì in Francia dopo la prima guerra mondiale.
Scrisse quattro romanzi, più un quinto lasciato incompiuto, e decine
di racconti brevi sui temi della giovinezza, della disperazione, e
del disagio generazionale.
Biografia
Fitzgerald nacque in un ambiente tipico del Middle West. Suo padre
Edward era un gentiluomo del Sud originario del Maryland e
cattolico, distinto e aristocratico nei modi e dallindole integerrima,
LAutore
Il Grande Gatsby
18
ma inconcludente, tanto da non riuscire sempre a provvedere degnamente
ai bisogni della famiglia. La madre, Mary McQuillan, era una
donna dal carattere romantico e irrequieto, figlia di un commerciante
benestante e nipote di un ricco irlandese che aveva trovato fortuna in
America grazie al commercio allingrosso di generi alimentari.
Sin dalladolescenza il giovane Scott fu attratto dal mondo aristocratico
del Sud e dagli ideali che il padre gli aveva trasmesso, quelli dellonore,
della cortesia e del coraggio, ma avendo sofferto delle ristrettezze
economiche e facendo un confronto tra il fallimento paterno e il successo
dei nonni materni - che avevano conquistato la stima con il denaro
- provò spesso ammirazione per la nuova borghesia americana ed ebbe
sempre per essa rispetto e una certa invidia. Come dirà a Hemingway, e
come scrisse in The Rich Boy, la ricchezza è diversa da voi e da me: ha
subito posseduto, subito goduto, e questo produce un effetto speciale.
Fitzgerald non poteva tuttavia fare a meno di rilevare la corruzione e
lapatia che spesso si associava a quello stile di vita, e portò sempre con sé
un vivo rigetto ricollegabile alleducazione cattolica impartitagli soprattutto
dalla madre. Da qui nacque la lotta interna tra lidealista romantico
ed il moralista scettico che è alla base del suo atteggiamento verso la vita
delle classi agiate, e che costituì il principale tema delle sue opere.
Nel 1898 i Fitzgerald si trasferirono a Buffalo (New York), dove
il padre aveva ottenuto un lavoro come rappresentante alla Procter
and Gamble. A Buffalo rimasero fino al 1901, quando si spostarono
a Syracuse, dove nacque la sorella Annabel.
Gli studi
Nel 1903 la famiglia rientrò a Buffalo dove Scott frequenta le scuole
elementari al Holy Angels Convent. Nel 1908 il padre venne
però licenziato e la famiglia fu costretta a ritornare a St. Paul dove
sarà mantenuta dalla nonna materna rimasta vedova.
LAutore
19
Nel 1908 Scott iniziò a frequentare la St. Paul Academy di Saint
Paul, Minnesota, dove già si esercitava alla scrittura tenendo un diario
e scrivendo per la rivista studentesca Now and Then.
Nel 1909 gli venne pubblicato il suo primo breve racconto di
genere poliziesco dal titolo Il mistero di Raymond Mortage. Ma il
profitto non era dei più brillanti e i genitori decisero di iscriverlo
ad un collegio cattolico dellEst. Venne così mandato, nel 1911, alla
Newman School nel New Jersey normalmente conosciuta come
la Eton cattolica dove conobbe e fece amicizia con padre Fay,
uomo di chiesa colto e dagli eclettici interessi.
Costui, che in seguito diventerà direttore della scuola, comprese
subito che il giovinetto, al di fuori dellapparenza narcisistica, era
dotato di grande sensibilità e intelligenza. La sua amicizia fu così
importante nelleducazione di Fitzgerald che a padre Fay, che sarà
il monsignore Darcy del libro, dedicherà il suo primo romanzo,
This Side of Paradise (Di qua dal Paradiso).
Durante questo periodo Fitzgerald si recava frequentemente a New
York che gli appariva come un mondo favoloso e ricco di fascino e
che diventerà poi nella sua narrativa un mito. Egli in seguito scriverà1:
«Ero come quel Dick Whittington che venuto dalla provincia se
ne sta a guardare a bocca spalancata gli orsi ammaestrati»
Continuava intanto il suo apprendistato di scrittore dilettante
pubblicando poesie e brevi racconti sul Newman News e dimostrando
il suo precoce interesse per il teatro mettendo in scena, con
la sua regia, una commedia per una compagnia di filodrammatica
del luogo dal titolo The Captured Shadow (Lombra catturata).
Nel 1913 convinse i genitori ad iscriverlo alla prestigiosa Università
di Princeton che era luniversità in quel periodo più nota dal punto
1 La mia città perduta in F.S. Fitzgerald, Letà del jazz e altri scritti, a cura
di Edmund Wilson, traduzione di Domenico Tarizzo, Il Saggiatore, 1960, p.41
Il Grande Gatsby
20
di vista sociale e mondano e che segnerà per il giovane, malgrado fallimenti
e frustrazioni, un momento fondamentale nel suo sviluppo.
I primi anni trascorsi a Princeton furono per Fitzgerald i più spensierati
della sua vita, trascorsi tra feste, musical e incontri sportivi.
Non riuscì ad emergere nel rugby, a causa anche del suo fisico delicato,
ma si distinse come ottimo ballerino, brillante conversatore e
scrittore di commedie musicali del Triangle Club, una tra le più
famose organizzazioni studentesche dAmerica. Presso lUniversità
si era infatti formata unassociazione studentesca che proponeva
molte attività creative, tra le quali lorganizzazione di un musical
che veniva allestito ogni anno. Fitzgerald, desideroso di successo,
accettò di comporre il libretto per loperetta da presentare allo spettacolo
annuale, che venne messo in scena nel dicembre del 1914 con
il titolo Fie!Fie!Fi-Fi!, trascurando così gli studi e non ottenendo la
carica di presidente del Triangle Club come desiderava.
Gli anni di Princeton furono comunque per il futuro scrittore anni
di importante formazione grazie alle numerose letture (tra i suoi
preferiti vi erano Herbert George Wells, Bernard Shaw, Booth Tarkington,
Compton Mackenzie, Oscar Wilde, Walter Pater e Rupert
Brooke) e alla conoscenza di numerosi intellettuali.
Nel 1916 strinse amicizia con John Peale Bishop e con Edmund
Wilson, a quel tempo redattori della rivista Nassau Literary Magazine
alla quale Fitzgerald collaborava, grazie ai quali imparò a dirigere
i suoi interessi letterari ancora indefiniti verso quelli più profondi
e consolidati ed ebbe modo, sotto la guida di Peaple Bishop che era
un poeta e un filosofo, a comprendere la vera poesia con lo studio
di Tennyson, Swinburne e Keats.
Conobbe in quel periodo Ginevra King, una giovane e bella fanciulla
dellalta società di Chicago, iniziando con lei una relazione
destinata a finire molto presto e che lasciò il giovane Scott deluso
e amareggiato.
LAutore
21
La guerra
Il 6 aprile 1917 gli Stati Uniti intervengono nella prima guerra
mondiale ma in un primo tempo Fitzgerald non sembrò particolarmente
colpito e continuò con tranquillità la sua vita universitaria.
Nel mese di giugno egli si recò a far visita a padre Fay che nel frattempo
era stato eletto monsignore ed era in partenza per la Russia
per appoggiare la Chiesa cattolica nei difficili giorni della rivoluzione
di Kerenskij e nei mesi successivi intrattiene con il padre una
fitta corrispondenza con lintenzione di raggiungerlo.
Ma a ottobre la sua domanda di arruolamento nellesercito venne
accolta e il 20 novembre, abbandonata lUniversità di Princeton
senza aver conseguito la laurea, viene inviato a Fort Leavenworth.
Egli si era deciso ad andare come volontario in Europa per combattere
in nome degli ideali di giustizia e di democrazia, ma non
venne mai inviato al fronte.
Con la carica di sottotenente fu stanziato nel Kansas e in seguito
trascorse lunghi mesi inattivi al campo di addestramento di Fort
Leavenworth in Florida.
Fitzgerald però sfruttò ogni momento per rivedere, correggere e
completare i ventitré capitoli del romanzo che aveva iniziato a Princeton
e che sarebbe stata la prima traccia di Di qua dal Paradiso.
Inviato nel 1918 in Georgia, a giugno il suo reparto venne trasferito
a Camp Sheridan in Alabama dove egli ebbe modo di conoscere,
durante un ballo del Country Club di Montgomery, Zelda
Sayre, figlia di un noto giudice dellAlabama. Scott, che rimase subito
affascinato dalla bellezza e dalla sicurezza della giovane, se ne
innamorò e i due giovani si fidanzarono.
A novembre il reparto venne trasferito in una base di Long Island
per limbarco, ma la fine della Prima guerra mondiale lo riporterà a
Montgomery e nel febbraio del 1919 egli verrà congedato.
Il Grande Gatsby
22
Il primo romanzo: This Side of Paradise
Arrivato a New York il giovane, pieno di entusiasmo e di felicità,
si impiega in una agenzia pubblicitaria, la Street Railway Advertising
Company, per 90 dollari al mese e la rivista Smart Set gli
paga 30 dollari per un racconto. Presenta il manoscritto dellEgoista
romantico che aveva scritto durante il periodo di addestramento
nel Kansas alleditore Scribner con la speranza che esso venga
accettato perché, come scrive in una lettera inviata allamico Edmundo
Wilson2 Se Scribner lo accetta mi sveglierò una mattina
e scoprirò che le debuttanti mi hanno reso famoso in una notte.
Credo che nessun altro avrebbe potuto scrivere in modo così penetrante
la storia dei giovani della nostra generazione. Il romanzo
venne però rifiutato anche se leditore lo incoraggerà a continuare.
Zelda, che non ha nessuna intenzione di sposare un uomo senza
denaro, si rifiuta di aspettare più a lungo e rompe il fidanzamento
informale. Scott rimase ubriaco per tre settimane e si trovò a dover
affrontare la miseria che tanto odiava.
La situazione sociale e politica del 1919
Per le strade di New York intanto, dopo larmistizio, iniziavano a
vedersi sempre più spesso le bandiere rosse e anche se il sindaco di
allora John F.Hylan ne proibì la diffusione non diminuirono le manifestazioni
a carattere socialista con interventi delle guardie a cavallo
per sedarle. Il paese si trovava in una crisi operaia molto grave
e iniziarono gli scioperi per protestare contro i prezzi troppo alti e
2 The Letters of Francis Fitzgerald, a cura di A. Turnubull, New York, Scribners,
1963, p. 343.
LAutore
23
per adeguare i salari ai prezzi in aumento. Il paese era stato preso
dal panico e verso la fine del 1919 cominciarono ad essere recapitati
pacchi ad orologeria per dissuadere la propaganda socialista.
La riscrittura e la pubblicazione del romanzo
Fitzgerald che si trova a dover vivere queste esperienze, decide di
recarsi a St. Paul dove, chiuso in casa, si dedica giorno e notte alla
revisione del romanzo. A settembre egli ripresenta il manoscritto a
Scribner che viene accettato dal suo redattore, Maxwell Perkins e il
26 marzo del 1920 il romanzo, con il titolo di This Side of Paradise,
(Di qua dal Paradiso) sarà pubblicato e subito ben accolto diventando,
come scrive Barbara Nugnes3 un vero e proprio best-seller
non solo per le indubbie qualità di freschezza e di spirito, ma anche
e soprattutto per il tono spregiudicato, insieme cinico e romantico,
con cui esplorava la vita sentimentale degli adolescenti americani.
Fitzgerald divenne così in breve tempo uno dei portavoce della nuova
generazione pronto ad abbandonarsi a quel lungo periodo di gioia
irrefrenabile e di esaltazione collettiva che venne detta Età del jazz.
Il matrimonio con Zelda
Una cartolina del 1917 raffigurante il Biltmore Hotel di New York
City, da cui F. Scott e Zelda Fitzgerald furono espulsi per ubriachezza
durante la loro luna di miele.
Fitzgerald ritorna felice e trionfante a Montgomery mentre con la
pubblicazioni del romanzo egli aveva raggiunto lagiatezza economica
e Zelda accettò di sposarlo.
3 Barbara Nugnes, Invito alla lettura di Fitzgerald, Mursia, Milano 1977.
Il Grande Gatsby
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Il 3 aprile, nella Cattedrale di San Patrizio a New York City con una
favolosa cerimonia, i due si unirono in matrimonio iniziando, come scrive
Fernanda Pivano4, la grande leggenda della bellissima coppia, eroina,
simbolo e interprete di tutte le prodezze sofisticate delletà del jazz.
Per lestate affittarono una casa a Westport nel Connecticut e in ottobre
un appartamento a New York a 38 West 59th Street divertendosi in
modo esagerato, scandalizzando gli anziani con il loro comportamento
anticonformista e nello stesso tempo entusiasmando i giovani.
I viaggi
Il primo viaggio in Europa risale al 1920 e il giovane scrittore si
reca prima a Londra, dove ha modo di conoscere John Galsworthy,
e in Francia. Il 1921 lo trascorrerà con Zelda in Inghilterra, in
Italia, in Francia e a Parigi conoscerà Gertrude Stein che in quei
tempi teneva un colto salotto letterario dove ospitava tutti i letterati
espatriati. Il resoconto di questi viaggi furono narrati da Scott e
da Zelda nel 1934 in Accompagna i signori F. al numero
F. Scott Fitzgerald fotografato nel 1921 da Gordon Bryant per
lo Shadowland Magazine. Sempre nel 1921 la coppia fece ritorno
a St. Paul dove nacque la figlia Frances, chiamata affettuosamente
con il soprannome di Scottie, della quale lo scrittore si prenderà
molta cura soprattutto dopo la malattia che colpirà Zelda.
A Sant Paul però non rimasero a lungo perché Zelda si annoiava
a morte e per passare il tempo si divertiva a dare scandalo con grande
disappunto della cittadina che era molto tradizionalista.
Appena la coppia poté ritornò a New York stabilendosi a Great
Neck, in Long Island. Sarà questo lambiente che Fitzgerald uti-
4 Fernanda Pivano, in Fitzgerald, Di qua Dal Paradiso, in Pagine Americane,
Frassinelli 2005.
LAutore
25
lizzerà come scenario del suo romanzo Il grande Gatsby, e, come
Gatsby, qui darà favolose e dispendiose feste che diventeranno leggendarie.
A Great Neck Zelda e Scott rimarranno fino alla primavera
del 1924, quando decideranno di andare a vivere in Francia.
Gli anni newyorkesi furono anni vissuti allinsegna della mondanità
e dello sperpero che indebiteranno lo scrittore in modo preoccupante.
Fitzgerald si era infatti imposto subito come simbolo di quella
nuova generazione che, colpita dalla guerra, si lasciava trascinare
da una vita spensierata, fatta di emozioni e di avventure esaltanti.
Il secondo romanzo The Beautiful and Damned
Il 4 marzo 1922 venne pubblicato il secondo romanzo dello scrittore,
The Beautiful and Damned (Belli e dannati) che era uscito a puntate
sul Metropolitan Magazine e che affronta il tema della dissoluzione
morale e psicologica di una giovane coppia in America negli anni venti.
Il romanzo offre attraverso apprezzabili chiaroscuri, le contraddizioni
del grande paese nellera del fox - trot, del jazz (poco citato) e del ragtime.
Gli anni in Europa
Nel 1924, illudendosi di diminuire le spese, la coppia si trasferì in Europa
dove rimase per cinque anni, eccezion fatta che per un breve intervallo.
La prima tappa fu a Parigi dove conobbero Gerald e Sara Murphy,
una ricchissima coppia di americani espatriati che li inviteranno a trascorrere
lestate sulla Costa Azzurra a Cap dAntibes dove i Murphy,
invitati da Cole Porter e innamoratisi della spiaggia, avevano convinto
un loro amico a tenere aperto il suo albergo anche fuori stagione.
Dopo Parigi Scott e Zelda si recarono a Hyères, a Nizza, ad Avignone
e si sistemarono a Saint-Raphaël. Durante il soggiorno estivo
Il Grande Gatsby
26
a Ville Marie, Scott riprese a lavorare intensamente al romanzo The
Great Gatsby che aveva iniziato a Long Island, ma Zelda si annoia
e conosciuto un certo Edward Jozan, un aviatore francese, se ne
invaghisce. Iniziano i litigi e le incomprensioni. Per uscire dalla vicenda,
e dopo un tentato suicidio di Zelda, la coppia nellautunno
si recò a Roma dove Scott, che in quel periodo si dava fortemente
allalcool, venne coinvolto in una rissa con un tassista.
Il terzo romanzo: The Great Gatsby
Allinizio del 1925, i Fitzgerald andarono ancora a Parigi dove il 10 aprile
venne pubblicato il romanzo Il grande Gatsby che, pur essendo unopera
di felice ispirazione, non ottenne il successo del precedente romanzo.
Durante la primavera Scott conobbe Ernest Hemingway, allora
scrittore alle prime armi, con il quale si intese subito e al quale fece
ottenere un contratto con leditore Scribner.
Nellagosto del 1925 i Fitzgerald ritornarono ad Antibes e furono
in seguito ospiti di Gerald e Sara Murphy a Villefranche dove lo scrittore
iniziò a lavorare al suo quarto romanzo, Tender Is the Night (Tenera
è la notte) che avrebbe terminato solamente otto anni più tardi.
Zelda dà i primi segni di squilibrio mentale
Il 1926 fu un anno di spostamenti, di litigi e di incomprensioni.
Il carattere di Zelda diventava ogni giorno più strano tanto che dovette
essere ricoverata per un breve periodo in una clinica.
A dicembre ritornarono negli Stati Uniti sul Conte Biancamano e a
gennaio del 1927 si recano per un primo viaggio a Hollywood dove
lo scrittore era stato invitato per scrivere una sceneggiatura per la
commedia di Constance Talmadge (che verrà rifiutata) e dove lavorò
LAutore
27
per la United Artists. Per quella occasione la coppia prese una casa
in affitto a Wilmington nel Delaware e Zelda iniziò a studiare danza.
Tra laprile e il settembre del 1928 fecero ritorno a Parigi per
ritornare nellinverno nuovamente negli Stati Uniti senza dei piani
precisi. Le incomprensioni e i litigi si fecero sempre più intensi e
insanabili e Scott si diede più che mai allalcool.
Gli anni di crisi
Nel 1929 la coppia si recò nuovamente in Europa, prima a Genova
poi a Nizza, a Parigi, a Cannes e infine a St. Raphael dove giunse loro
la notizia del crac in borsa e negli Stati Uniti iniziava il periodo della
grande depressione e con essa anche la fine delletà spensierata del jazz.
Il 23 aprile del 1930 la malattia di Zelda, che i medici diagnosticarono
trattarsi di schizofrenia, si manifestò in tutta la sua gravità
ed ella venne ricoverata alla Malmaison di Parigi, poi a Montreux in
Svizzera mentre Scott si sistemava a Ginevra e in seguito a Losanna.
Al tragico ritorno alla realtà imposto dalla crisi del 1929 si accompagnò
quindi anche la crisi familiare e personale di Fitzgerald
che, semialcolizzato e preoccupato per le condizioni della moglie,
ebbe un forte tracollo che gli impedì di lavorare con la necessaria
tranquillità alla stesura definitiva di Tender Is the Night.
Nel 1931 Fitzgerald si recò per breve tempo negli Stati Uniti ma
nellestate si trovava ad Annecy e quando a settembre Zelda venne
dimessa essi ritornarono in America stabilendosi a Montgomery
nellAlabama e Scott, che dovette recarsi a Hollywood, andò da solo.
Nel settembre del 1932, in seguito alla morte del padre, Zelda ebbe
una ricaduta e venne ricoverata in una clinica di Baltimora dove rimarrà
fino a giugno mentre Scott va a vivere con la figlia a Rodgers
Forge dove Zelda, appena dimessa, li raggiunge. Scott intanto continua
a lavorare al romanzo Tenera è la notte.
Il Grande Gatsby
28
Il quarto romanzo: Tender Is the Night
Nel 1934 venne pubblicato il quarto romanzo di Fitzgerald, Tender
Is the Night (Tenera è la notte), lopera alla quale lo scrittore
lavorò più a lungo ma che ottenne scarso successo.
Zelda intanto, colta da una terza ricaduta, sarà nuovamente ricoverata.
Il 1935 vede Scott disperato per linsuccesso ottenuto dal libro, per
la situazione economica e per il suo stato di salute. Era stato infatti colto
da un serio attacco di tubercolosi e dovette essere ricoverato prima
a Tryon nel North Carolina, poi a Asheville e infine a Baltimora.
Lo stato depressivo nel quale si trovava Fitzgerald peggiorò ulteriormente,
portandolo a quel crack-up (crollo) di cui i tre toccanti
articoli apparsi nel 1936 sulla rivista Esquire e pubblicati postumi
nel 1945 da Edmund Wilson costituiscono una testimonianza
drammatica. In essi vi è la confessione del suo fallimento e, come
scrive Fernanda Pivano5, si tratta di ...un documento tragicamente
sincero che soltanto il candore di Scott poteva gettare in pasto al
pubblico con tanta semplicità. Il suo candore fu ancora una volta
frainteso. Nessuno raccolse il grido disperato; il pubblico e perfino
gli amici si limitarono a scandalizzarsi; Hollywood gli rifiutò un
contratto che sarebbe stato forse la sua salvezza.
Gli ultimi anni
Nel 1937 Fitzgerald, ripresosi, accettò di lavorare come sceneggiatore
a Hollywood sotto contratto con la MGM per diciotto mesi
e si innamorò di Sheilah Graham, una cronista mondana, che lo
5 Fernanda Pivano, Pagine Americane, Frassinelli, 2005
LAutore
29
aiutò a riacquistare il suo equilibrio. Il lavoro gli procurò una certa
tranquillità economica tanto da poter scrivere serenamente.
Collaborò in questo periodo a diversi film tra i quali Donne
(The Women) del regista George Cukor che uscirà nel 1939) ma
nel 1938 aveva cofirmato ladattamento di Three Comrades (Tre
camerati) del regista Frank Borzage ma ladattamento non venne
considerato dal produttore che lo riscrisse causando a Fitzgerald
unaltra grande delusione.
Così, lanno dopo, quando si recò a Darthmounth con Schulberg,
che in seguito scrisse un romanzo biografico in cui riferisce lepisodio
con il titolo The Disenchanted, per la preparazione di uno
scenario, ricominciò a bere e dovette essere ricondotto a New York
dove venne ricoverato in ospedale.
Lultimo romanzo: The Last Tycoon
Dalla crisi durata parecchi mesi emerse un nuovo Fitzgerald,
oramai disincantato. Mentre seguitava a scrivere racconti per lEsquire
(tra cui qualcuno ambientato ad Hollywood) concepì ed
iniziò a scrivere The Last Tycoon (Lultimo magnate, conosciuto
in Italia con il titolo Gli ultimi fuochi e pubblicato nel 2012 con
il titolo Lamore dellultimo milionario), che vede nel produttore
Monroe Stahr un Gatsby più maturo, ma altrettanto idealista.
Questa resta probabilmente lopera di Fitzgerald più significativa
e penetrante ambientata nel mondo del cinema. Il romanzo, rimasto
incompiuto, uscirà postumo nel 1941 pubblicato dallamico
Edmund Wilson con le indicazioni che Fitzgerald stesso aveva
predisposto per il suo compimento. Grazie a questuscita postuma
la critica riscoprì lautore.
Il Grande Gatsby
30
Gli attacchi di cuore e la morte
Alla fine di novembre sopraggiunse un primo attacco di cuore.
Spaventato, ma non arresosi, lo scrittore continuò faticosamente a
scrivere il romanzo iniziato. Il 20 dicembre aveva terminato il primo
episodio del sesto capitolo, ma il giorno seguente un secondo
attacco cardiaco lo colse provocandogli la morte.
Il funerale avvenne in modo semplice ed egli fu inumato in un
piccolo cimitero di Rockville (Maryland); tra le poche persone a
prendervi parte ci fu la scrittrice e amica Dorothy Parker, la quale
proprio davanti al feretro, citando una frase dal Grande Gatsby,
esclamò: Povero vecchio bastardo6.
La moglie Zelda sopravvisse al marito otto anni e nel 1948 morì in
un incendio divampato nella clinica Highland a Asheville nel North
Carolina dove era internata da tempo.
Leggi la scheda completa su Wikipedia
6 Fernanda Pivano, Mostri degli anni Venti, Edizioni Il Formichiere, 1976.
31
A partire dagli anni 30 Il grande Gatsby è stato tradotto svariate
volte in italiano.
Ciascuna di queste versioni era il frutto di una logica editoriale
di tipo classico abbinata ad una altrettanto classica logica commerciale.
Leditore affidava al traduttore lelaborazione del testo e
il risultato era unopera chiusa alla data del finito di stampare.
Quello che proponiamo è un nuovo concetto di traduzione, unopera
nata non da un professionista, non messa in vendita e non chiusa.
Il traduttore non è un madrelingua e non ha una conoscenza professionale
dellinglese, è animato da una notevole passione per la letteratura
e coltiva il sogno di liberare da logiche commerciali la gran
parte dei classici, per offrirli al più vasto pubblico.
Sposando questottica la ESA intende inaugurare una collana di
grandi classici della letteratura mondiale offerti al pubblico in traduzioni
migliorabili nel tempo, col medesimo spirito che anima Wikipedia
ovvero in maniera collaborativa, diretta e gratuita.
Lopera, pertanto, non sarà mai chiusa ma aperta a critiche, suggerimenti
e spunti riflessivi di ogni tipo e genere. Ogni contributo sarà
ben accetto e potrà essere inviato alla casa editrice tramite lindirizzo
dedicato: classici@edizioniesa.it.
Sfruttando le moderne piattaforme per la pubblicazione di contenuti
digitali, la ESA provvederà a rendere disponibili i vari volumi
La Traduzione
Il Grande Gatsby
32
della collana in qualsiasi formato e ad aggiornarli periodicamente in
base ai suggerimenti che giungeranno dai lettori.
Il progetto prevede, inoltre, limmissione nel circuito librario tradizionale
di edizioni anchesse in continuo aggiornamento, proposte
al costo di stampa.
I testi saranno accompagnati da brevi introduzioni e cenni biografici
degli autori, di modo da offrire ai lettori una migliore contestualizzazione
delle opere.
Solo in questo modo riteniamo si possa dare avvio ad un concreto
rilancio della cultura ed in particolare della lettura critica.
Buona lettura!
Il Grande
Gatsby
35
Nella mia prima giovinezza, quella più vulnerabile, mio padre
mi diede un consiglio su cui, da allora, non ho mai
smesso di riflettere.
Ogni volta che ti viene voglia di criticare qualcuno mi disse ricorda
che non tutti al mondo hanno goduto dei tuoi privilegi.
Non aggiunse altro, ma capii che intendeva dire molto di più:
siamo sempre stati insolitamente comunicativi, nonostante la nostra
riservatezza. Da quel consiglio deriva la mia tendenza ad evitare
ogni tipo di giudizio, unabitudine che mi ha avvicinato molti
personaggi strani, ma che al contempo mi ha reso vittima di non
pochi seccatori seriali.
La mente anormale è molto sensibile verso questa peculiarità
e vi si aggrappa non appena la scorge in una persona ordinaria
cosicché alluniversità fui ingiustamente accusato di essere un politicante
poiché conoscevo i segreti disperati di uomini pazzi e sconosciuti.
Le confidenze, nella maggior parte dei casi, non erano da
me stimolate spesso ho finto di aver sonno, di essere preoccupato
per qualcosa, sono arrivato ad ostentare unindifferenza ostile non
appena intuivo, da qualche segno inconfondibile, che allorizzonte
si profilava la confessione di qualche segreto intimo perché le
rivelazioni intime dei giovani, o perlomeno le parole che usano per
esprimerle, difficilmente sono originali e spesso suonano implausi-
Capitolo Primo
Il Grande Gatsby
36
bili per via di evidenti omissioni. Eludere i giudizi, quindi, diventa
fonte di speranza infinita. Ho ancora un leggero timore di poter
perdere qualcosa dimenticando che, come col suo consueto snobismo
mi rammentava mio padre e come col medesimo snobismo
vado ripetendo io, il senso della dignità fondamentale è distribuito
iniquamente alla nascita.
Ma ora, dopo essermi vantato oltremodo della mia tolleranza,
tocca ammetterne i limiti. La condotta morale può poggiare sulla
roccia più dura e compatta o su paludi acquitrinose eppure, superato
un certo limite, non mimporta più su cosa sia fondata. Quando
rientrai dallEst, lo scorso autunno, anelavo ad un mondo in uniforme,
paralizzato in una sorta di eterno attenti morale; ero completamente
stufo delle privilegiate ed indomite incursioni nel cuore
umano. Soltanto Gatsby, luomo che presta il proprio nome a questa
storia, era escluso da quella mia reazione proprio Gatsby che
rappresentava tutto ciò per cui nutrivo il più puro disprezzo. Se la
personalità fosse una serie ininterrotta di scelte di successo, bisogna
ammettere che in lui cera qualcosa di grandioso, una sorta di sensibilità
sopraffina per quanto di meglio la vita avesse da offrirti per il
futuro, quasi fosse una di quelle macchine in grado di registrare un
terremoto a diecimila miglia di distanza. Questa sua capacità non
aveva nulla in comune con quella flaccida impressionabilità classificata
come temperamento creativo la sua era una straordinaria
propensione alla speranza, una romantica reattività come mai prima
di allora avevo riscontrato in nessuno e che, difficilmente, mi
riuscirà di ritrovare. No Gatsby alla fine ne venne fuori onesto,
pulito; fu ciò che lo turbava, la polvere immonda che aleggiava sulla
scia dei suoi sogni, a distrarmi per un po dal mio interesse per le
piccole miserie e per gli altrettanto effimeri successi degli uomini.
La mia è una famiglia conosciuta, gente benestante che vive da
tre generazioni in questa città del Middle West. I Carraway sono
Capitolo Primo
37
una sorta di clan e la tradizione pare li voglia discendenti dei Duchi
di Buccleuch, ma, in tempi più recenti, è al fratello di mio nonno
che si può ricondurre il nostro ramo; giunse qui nel 51, mandò un
sostituto alla Guerra Civile ed avviò un commercio allingrosso di
ferramenta, impresa che oggi porta avanti mio padre.
Non ho mai conosciuto questo prozio, ma pare che gli somigli
in particolare pare che rassomigli al suo ritratto, dallespressione
piuttosto dura, che sta appeso nello studio di mio padre. Mi laureai
nel 1915 a New Haven appena un quarto di secolo dopo mio padre,
giusto in tempo per prendere parte a quella tardiva migrazione
Teutonica nota come la Grande Guerra. Ebbi modo di apprezzare
così a fondo la controffensiva che tornai irrequieto. Il Middle
West piuttosto che il centro del mondo, mi appariva come lorlo
slabbrato delluniverso così decisi di partire per lEst a studiare
il commercio in borsa. Chiunque conoscessi lavorava in borsa, così
immaginai che quel settore potesse sfamare un altro uomo. Tutte
le mie zie e gli zii, interpellati, rispondevano come se stessero scegliendo
per me una di quelle scuole di formazione quindi concludevano
Mah siii con facce esitanti e molto seriose. Papà accettò
di finanziarmi per un anno e, dopo svariati rinvii, partii per lEst
nella primavera del 22, credendo di andar via per sempre.
La sistemazione più pratica sarebbe stata un alloggio in città,
ma era una stagione calda ed io avevo appena lasciato la campagna
con praterie sconfinate ed alberi amabili così quando un ragazzo
in ufficio mi propose di condividere una casa in una cittadina lì
vicino, mi sembrò una grandiosa idea. Trovò la casa, un vecchio
bungalow di cartone logorato dalle intemperie, ad ottanta dollari
al mese, ma allultimo minuto lazienda gli impose il trasferimento
a Washington ed io me ne andai da solo in campagna. Avevo un
cane, o almeno lo ebbi per qualche giorno finché non se ne scappò
via, una vecchia Dodge e una domestica finlandese che mi rifaceva
Il Grande Gatsby
38
il letto e preparava da mangiare mormorando dei proverbi finnici
mentre trafficava col fornello elettrico.
Provai la solitudine per un giorno o almeno fin quando non fui
fermato per strada da un uomo giunto lì dopo di me.
«Qual è la strada per West Egg?» mi chiese in preda alla disperazione.
Gli risposi. E nel riprendere a passeggiare, sentii la solitudine
svanire. Ora ero una guida, un esploratore, un indigeno. Quelluomo
mi aveva conferito, del tutto casualmente, il diritto di cittadinanza
nel quartiere.
E così, con la luce del sole e le grandiose esplosioni di foglie sugli
alberi esattamente come si vedono crescere le cose nei filmati accelerati
ebbi la netta percezione che la vita ricominciasse con lestate.
Cera tanto da studiare e potevo respirare a pieni polmoni unaria
fresca, giovane e salutare. Avevo comprato una dozzina di volumi
sulla tecnica bancaria, sul credito e sui titoli di investimento
ed ora erano tutti allineati sul mio scaffale, in rosso ed oro, simili a
moneta nuova di zecca, con la promessa di svelarmi fulgidi segreti
che soltanto Mida, Morgan e Mecenate avevano conosciuto. Ed
ero convinto che dopo questi ne avrei letti molti altri ancora. Al
college ero stato un letterato un anno scrissi una serie di editoriali
per il Yale News dal registro molto solenne ed esplicito ed ora
stavo per recuperare tutto questo, stavo per diventare di nuovo il
più settoriale degli specialisti, luomo ben avviato. Questo non
è soltanto un epigramma la vita, dopo tutto, appare molto più
brillante se la si considera da un solo punto di vista.
Fu soltanto per una questione di fortuna che affittai casa in uno
dei luoghi più strani del Nord America. Su questisola slanciata e
rigogliosa che si estende precisamente ad est di New York, tra le altre
curiosità naturali, ci sono due insoliti promontori. A venti miglia
dalla città, due enormi uova, identiche nella forma e separate soltanto
da una baia disegnata con garbo, si gettano nello specchio dacCapitolo
Primo
39
qua salata più addomesticato dellEmisfero Occidentale, il grandioso
cortile umido di Long Island Sound. Non si tratta di ovali perfetti
come nella favola delluovo di Colombo, sono entrambe schiacciate
sul lato dove si ricongiungono ma di sicuro la loro somiglianza fisica
deve essere costante fonte di stupore per i gabbiani che ci volano
sopra. Per tutti coloro che invece sono sprovvisti di ali, il fenomeno
più interessante che vi si riscontra è la profonda differenza sotto
qualsiasi aspetto, eccezion fatta che per forma e dimensioni.
Io abitavo a West Egg, la... beh sì, la meno alla moda delle due,
anche se questa è una maniera piuttosto superficiale per esprimere
la bizzarra e un po misteriosa differenza che cera tra loro. La mia
casa si trovava sullestremità delluovo, a sole cinquanta iarde dalla
spiaggia, schiacciata tra due enormi edifici che venivano affittati
per dodici o quindici mila dollari a stagione. Quello sulla mia destra
era qualcosa di colossale sotto ogni punto di vista la copia
esatta di un Hotel de Ville in Normandia, con una torre su di un
lato, di recentissima costruzione e ricoperta da una rada barbetta
di edera ancora troppo giovane, una piscina in marmo e più di
quaranta ettari di prato e giardino. Era la villa di Gatsby. O meglio,
poiché ancora non conoscevo il signor Gatsby, era la villa di un
gentiluomo con quel nome. Tornando alla mia casa, era un pugno
nellocchio, ma un piccolo pugno nellocchio, quasi trascurabile,
cosicché potevo godere della vista sul mare, di uno scorcio parziale
sul parco affianco e della rassicurante vicinanza di gente milionaria
tutto per ottanta dollari al mese.
Al di là della graziosa baia, i luccicanti palazzi bianchi dellesclusiva
Est Egg si riflettevano sullacqua, e si può dire che la storia di
quellestate ebbe inizio la sera che lattraversai per andare a cena
dai Buchanan. Daisy era una mia cugina di secondo grado mentre
Tom lavevo conosciuto alluniversità. E appena rientrato dalla
guerra, avevo trascorso due giorni con loro a Chicago.
Il Grande Gatsby
40
Il marito, oltre alle notevoli doti fisiche, era stato una delle ali
più potenti che avessero mai giocato a football a New Haven era
un personaggio di rilievo nazionale, in un certo senso, uno di quegli
uomini che raggiungono una fama così ben definita e fulgida a ventunanni
che tutto, dopo, sembra essere di importanza via via decrescente.
La sua famiglia era smisuratamente facoltosa anche alluniversità
il suo rapporto disinvolto col denaro era motivo di biasimo
ma ora aveva lasciato Chicago e se nera venuto nellEst con un
tono, uno stile che toglieva il fiato: ad esempio sera portato dietro
un buon numero di cavallini da polo, direttamente da Lake Forest.
Per un uomo della mia generazione, era davvero difficile concepire
quanto ricchi si dovesse essere per fare una cosa del genere.
Perché se ne fossero venuti nellEst non lo saprò mai. Avevano
passato un anno in Francia senza un motivo particolare e poi erano
andati alla deriva senza mai fermarsi, ovunque ci fosse gente che
giocava a polo e che fosse ugualmente ricca. Questa sarebbe stata
una sistemazione definitiva, mi aveva detto Daisy al telefono, ma
francamente non ci credevo certo non potevo scrutare nel cuore
di Daisy, ma ero convinto che Tom avrebbe continuato, nostalgicamente,
la sua deriva in cerca di qualche squadra di football in
condizioni disperate, da risollevare.
E fu così che, in una serata animata da un bel vento caldo, mi
recai a Est Egg per incontrare due vecchi amici che a malapena
conoscevo. La loro casa era addirittura più grandiosa di quanto
potessi immaginare. Un vivace palazzo rosso e bianco in perfetto
stile coloniale Georgiano che dominava la baia. Il prato partiva
dalla spiaggia e correva verso lingresso principale per un quarto di
miglio, superando di slancio meridiane, viottoli in mattoni e giardini
sfavillanti per esaurire poi la sua corsa, una volta raggiunta
la casa, risalendo sul fianco sotto forma di brillanti tralci di vite. La
facciata era interrotta da una fila di finestre a tutta altezza, che a
Capitolo Primo
41
quellora riflettevano la luce dorata del tramonto, aperte al vento
caldo del pomeriggio e Tom Buchanan, in abiti da cavallerizzo, era
in piedi a gambe divaricate sulla veranda.
Era cambiato dai tempi di New Haven. Adesso era un uomo
robusto sulla trentina, dai capelli color paglia, una bocca dura e
dallaria altezzosa. Due occhi scintillanti e superbi si erano imposti
come tratto dominante sul suo volto, conferendogli unespressione
perennemente aggressiva verso chiunque avesse di fronte. Leleganza
un po effimera del suo abbigliamento da cavallerizzo, non
riusciva minimamente a mascherare lenorme potenza di quel corpo
sembrava quasi che stipasse a forza quei suoi stivali luccicanti
prima di assicurarli con i legacci e si poteva scorgere una gran massa
di muscoli in movimento quando agitava una spalla al di sotto della
giacca. Era un corpo capace di grandi sforzi: un corpo crudele.
Aveva una voce aspra dal tono roco che accresceva limpressione
dirritabilità che emanava. Cera in essa come una nota di disprezzo
paternalistico, anche nei confronti delle persone che apprezzava
e alcuni, a New Haven, lo avevano odiato per questo suo atteggiamento.
Ora non credere che la mia opinione su questa faccenda sia
definitiva... sembrava voler dire ...soltanto perché sono più forte
e virile di te. Eravamo entrambi nel club degli anziani e, nonostante
non ci fosse mai stata una grande intimità tra noi, ho sempre
avuto limpressione che mi stimasse e volesse riuscirmi simpatico
anche se con i suoi modi rozzi ed arroganti.
Parlammo per alcuni minuti al sole sulla veranda.
«Ho trovato davvero un bel posticino» disse con occhi fiammeggianti
ed irrequieti.
Avvolgendomi con un braccio mi fece voltare mentre con una
delle sue grandi mani disegnava lorizzonte indicandomi in lontananza
il giardino allitaliana, un ettaro di rose dal profumo peneIl
Grande Gatsby
42
trante e un motoscafo dalla prua schiacciata che affrontava le onde
verso il mare aperto.
«Apparteneva a Demaine, il petroliere.» Poi mi rigirò di nuovo,
sempre con quei suoi modi garbati ma bruschi. «Andiamo dentro.»
Camminammo attraverso un corridoio alto e pervaso dalla luce
del tramonto, unito alla casa soltanto attraverso delle portefinestre
alle due estremità. I battenti erano socchiusi e rilucenti di un bianco
brillante in netto contrasto con lerba fresca del prato che sembrava
quasi stesse crescendo, per un piccolo tratto, anche dentro casa.
Soffiava una leggera brezza attraverso la stanza, gonfiava le tende
spingendone unestremità allinterno e laltra in fuori, facendole somigliare
a delle pallide bandiere ora su, verso la torta nuziale del
soffitto e quindi giù a sfiorare il tappeto color vinaccia, creandoci
sopra unombra come il vento è solito fare sul mare.
Lunico oggetto realmente immobile in quella stanza era un
enorme divano sul quale erano distese due giovani donne come se
si trovassero sulla navicella di un pallone frenato. Erano entrambe
vestite di bianco e i loro abiti apparivano drappeggiati e fluttuanti
come se fossero rientrate in quel momento da un breve volo attorno
alla casa. Devo essere rimasto per qualche istante immobile ad
ascoltare le frustate e i colpi secchi delle tende e il gemito proveniente
da un quadro sulla parete. Poi ci fu un grande boato quando
Tom Buchanan chiuse le finestre alle mie spalle facendo cadere il
vento catturato nella stanza e dun tratto le tende, i tappeti e le due
giovani donne atterrarono lentamente.
La più giovane delle due, non lavevo mai vista. Era completamente
distesa sul suo lato del divano, immobile, col solo mento
allinsù come se ci tenesse sopra qualcosa in equilibrio. Se pure
si accorse della mia presenza con la coda degli occhi, non lo fece
intuire in alcun modo anzi, fui piuttosto sorpreso nel ritrovarmi a
mormorare qualche scusa per averla disturbata, entrando.
Capitolo Primo
43
Laltra ragazza, Daisy, fece un timido accenno ad alzarsi si protese
leggermente in avanti con unespressione premurosa quindi
rise, una risata surreale ed elegante, poi anchio risi e finalmente
mossi qualche passo in avanti nella stanza.
«Sono pa-paralizzata dalla felicità.»
Rise di nuovo, come se avesse detto qualcosa di molto spiritoso, e
mi tenne la mano per qualche istante, guardandomi negli occhi, quasi
a volermi assicurare che nessun altro al mondo le fosse più gradito di
me in quel momento. Era un suo modo di fare. Accennò, in un sussurro,
che il cognome dellequilibrista era Baker. (Ho sentito dire che Daisy
fosse solita sussurrare per fare in modo che la gente le si inchinasse
di fronte; una critica insignificante che nulla toglie alla sua eleganza).
Ad ogni modo la signorina Baker mosse le labbra, un segnale
impercettibile della sua attenzione e, rapidamente, rigettò la testa
allindietro loggetto che teneva in equilibrio si era chiaramente
mosso creandole un po di timore. Mi ritrovai a bisbigliare, nuovamente,
qualcosa di simile a delle scuse. Ho sempre apprezzato
moltissimo le dimostrazioni di completa autosufficienza.
Tornai a osservare mia cugina la quale mi stava ponendo delle domande
con la sua voce bassa ed inebriante. Era il tipo di voce che lorecchio
tende a seguire come se ciascuna frase fosse una melodia da non ripetersi
mai più. Il suo volto era triste e amabile con tutto ciò che ci brillava su,
degli occhi brillanti e una bocca anchessa brillante e passionale ma cera
qualcosa di così eccitante in quella sua voce che difficilmente un uomo
che si fosse preso cura di lei, avrebbe potuto dimenticare: una pulsione
vocale, un Ascoltami sussurrato, la promessa che lei avrebbe reso piacevoli
le ore a seguire come lo erano state quelle appena trascorse.
Le raccontai che avevo fatto tappa a Chicago per un giorno, nel
mio viaggio verso Est e che una dozzina di persone le inviavano messaggi
di affetto.
«Dici che sentono la mia mancanza?» mi chiese euforica.
Il Grande Gatsby
44
«Lintera città è un deserto. Tutte le auto hanno la ruota posteriore
sinistra dipinta di nero in segno di lutto e cè un lamento continuo,
tutte le notti, lungo la North Shore.»
«Oh è fantastico! Dobbiamo tornarci Tom. Domani!» Poi aggiunse
distrattamente «Dovresti vedere la bambina.»
«Con molto piacere.»
«Sta dormendo. Ha due anni. Non lhai mai vista?»
«Mai.»
«Beh, devi vederla. Lei è
»
Tom Buchanan, che era rimasto un po assente nella stanza, si
fermò appoggiandomi una mano sulla spalla.
«Di cosa ti occupi, Nick?»
«Lavoro in borsa.
«Per chi?»
Glielo dissi.
«Mai sentiti nominare» osservò con decisione.
Questo mi diede un po fastidio.
«Li conoscerai
» risposi piccato «Ne sentirai parlare se resterai
nellEst.»
«Oh, resterò qui nellEst, stai tranquillo» disse osservando prima
Daisy quindi tornando su me come se fosse preoccupato per qualcosaltro.
«Sarei un dannato scemo se pensassi di andare a vivere altrove.»
A questo punto la signorina Baker esclamò «Assolutamente!» in
modo così inaspettato e rapido che ne rimasi scosso era la prima
parola che pronunciava da quando ero entrato in quella stanza.
Evidentemente lei stessa ne fu sorpresa almeno quanto me poiché
sbadigliando si destò con una serie di movimenti rapidi ed agili.
«Sono indolenzita» si lamentò. «Non ricordo più da quanto
tempo stavo distesa su quel divano.»
«Non guardare me» le ribatté Daisy «è tutto il pomeriggio che
sto cercando di portarti a New York.»
Capitolo Primo
45
«No grazie» disse la signorina Baker rifiutando i quattro cocktail
che in quel momento arrivavano dalla dispensa «Devo necessariamente
mantenermi in allenamento.»
Il suo ospite la guardò incredula.
«Dici sul serio!?» Mandò giù il suo drink come se fosse una
goccia sul fondo del bicchiere. «Come tu riesca a portare a termine
una cosa, non arriverò mai a capirlo.»
Guardai la signorina Baker, domandandomi cosa mai «avesse
portato a termine.» Mi piaceva guardarla. Era una ragazza slanciata,
dal seno minuto e portamento eretto che accentuava tirando
indietro il corpo nelle spalle come un giovane cadetto. I suoi occhi
grigi e striati dal sole risposero al mio sguardo con educata e reciproca
curiosità da un viso triste, attraente ed insoddisfatto.
Fu allora che mi ricordai di averla già vista, o almeno di aver
visto una sua fotografia, da qualche parte.
«Lei abita a West Egg» osservò in modo sprezzante «conosco
qualcuno da quelle parti.»
«Non conosco anima viva
»
«Conoscerà di sicuro Gatsby.»
«Gatbsy?» domandò Daisy. «Quale Gatbsy?»
Prima che potessi rispondere che si trattava del mio vicino di
casa, fu annunciata la cena; incuneando con forza il suo braccio
teso sotto il mio, Tom Buchanan mi spinse fuori dalla stanza, quasi
stesse muovendo una pedina in unaltra casella.
Esili, languide, con le mani poggiate delicatamente sui fianchi,
le due giovani donne ci precedettero fuori, sulla veranda colorata
dalla luce del tramonto dove quattro candele tremolavano sulla tavola
al lieve soffio di una brezza ormai calata.
«Perché mai le candele?» obiettò Daisy aggrottando le ciglia. Le
spense rapidamente con le dita. «Tra due settimane sarà il giorno
più lungo dellanno.» Ci guardò tutti raggiante. «Vi capita di aspetIl
Grande Gatsby
46
tare il giorno più lungo dellanno per poi perderlo? Io aspetto sempre
il giorno più lungo dellanno e poi me lo perdo.»
«Dovremmo organizzare qualcosa» sbadigliò la signorina Baker
sedendosi a tavola come se si stesse infilando a letto.
«Bene» disse Daisy. «Che cosa organizziamo?» si voltò verso
me in cerca di aiuto: «che cosa organizza di solito la gente?»
Ancor prima che potessi rispondere i suoi occhi caddero, con
unespressione di spavento, sul suo dito mignolo.
«Guardate!» si lamentò. «Me lo sono ferito.»
Tutti ci voltammo a guardare... la nocca era scura e bluastra.
«Sei stato tu, Tom» disse con tono accusatorio. «Lo so che non lhai
fatto apposta, ma sei stato tu. Questo è ciò che mi tocca per aver sposato
un bruto, un grande, grosso, mastodontico esemplare fisico di...»
«Odio la parola mastodontico» obiettò Tom con stizza «anche
quando la si usa per scherzo...»
«Mastodontico» insisté Daisy.
Alle volte lei e la signorina Baker parlavano con discrezione di
banalità sarcastiche, ma non si trattava mai di un cicaleccio, era
qualcosa di fresco come i loro vestiti candidi ed avevano sguardi
impersonali, senza alcun desiderio.
Erano qui ora e accettavano Tom e me sforzandosi soltanto un
po, con garbo e simpatia, di intrattenerci ed essere intrattenute consapevoli
che presto la cena sarebbe finita ed anche la serata, poco
più tardi, sarebbe giunta al termine e casualmente messa da parte.
Cera una profonda differenza, in questo, col West dove una
serata veniva sospinta di fase in fase verso la sua conclusione, in
unaspettativa costantemente delusa o anche in una tensione assoluta
per lattesa di quel momento stesso.
«Mi fai sentire un incivile, Daisy» confessai al mio secondo bicchiere
di bordeaux, notevole ma dal sapore un po di tappo. «Non
potresti parlare di raccolti o di qualcosa del genere?»
Capitolo Primo
47
Non alludevo a nulla in particolare, ma questa mia osservazione
fu accolta in una maniera piuttosto inattesa.
«La civiltà sta cadendo a pezzi,» proruppe Tom bruscamente.
«Sono diventato piuttosto pessimista sulla faccenda. Hai letto Lascesa
degli Imperi di colore di quel tale Goddard?»
«Per la verità, no» risposi un po sorpreso per il suo tono.
«Beh, si tratta di un bel libro, credo che dovrebbero leggerlo
tutti. Il concetto di fondo è che se non ci guardiamo attorno, la
razza bianca sarà... sarà completamente annientata. È tutta roba
scientifica; è provato.»
«Tom sta diventando molto profondo» disse Daisy con unespressione
triste e distratta. «Legge dei libri profondi con tanti paroloni...
Comera quella parola che...»
«Beh, questi libri sono tutti scientifici» rilanciò Tom squadrando
Daisy con impazienza. «Lo studioso ha analizzato tutta la faccenda.
Ora sta a noi, che siamo la razza dominante, stare in guardia
o le altre razze avranno il controllo della situazione.»
«Dobbiamo annientarli» sussurrò Daisy strizzando gli occhi con
ferocia verso il sole ardente.
«Dovresti vivere in California...» esordì la signorina Baker, ma
Tom la interruppe muovendosi pesantemente sulla sedia.
«Lidea è che noi siamo Nordici. Lo siamo io e te, lo sei tu e...»
Dopo un istante di esitazione incluse anche Daisy con un cenno del
capo, e lei mi strizzò di nuovo locchio. «... e siamo noi che abbiamo
creato la civiltà... oh, la scienza e larte, e tutte le altre cose. Mi segui?»
Cera qualcosa di patetico nella sua concentrazione come se
il suo compiacimento, indubbiamente più acuto che in passato,
non gli fosse più sufficiente. Quando, di lì a pochissimo, squillò
il telefono allinterno e il maggiordomo si ritirò dalla veranda,
Daisy approfittò di quella momentanea interruzione per chinarsi
verso di me.
Il Grande Gatsby
48
«Ti racconterò un segreto di famiglia» bisbigliò con entusiasmo.
«Riguarda il naso del maggiordomo. Vuoi sentire la storia del naso
del maggiordomo?»
«È per questo che sono venuto qui, stasera.»
«Beh, non è stato sempre un maggiordomo; si occupava di lucidare
largenteria per certa gente di New York, che aveva un servizio
per duecento persone. Doveva lucidarlo dalla mattina alla sera
finché un giorno non ebbe un fastidio al naso...»
«Le cose andarono di male in peggio» suggerì la signorina Baker.
«Si, le cose andarono peggiorando di giorno in giorno finché
non fu costretto a rinunciare al posto.»
Per un istante lultimo raggio del sole al tramonto le sfiorò, con
romantica devozione, il viso luminoso; la sua voce mi costrinse a
protendermi verso di lei col fiato sospeso per continuare ad ascoltarla...
poi il bagliore si attenuò, ciascuna luce abbandonò il suo
volto con disperata lentezza come dei bambini che si ritirino da
una strada amena al crepuscolo.
Il maggiordomo tornò e mormorò qualcosa allorecchio di Tom
il quale aggrottò le sopracciglia, spinse indietro la sua sedia e, senza
dire una parola, entrò in casa. Quasi come se la sua assenza avesse
accelerato qualcosa dentro di lei, Daisy si protese in avanti nuovamente
con la sua splendida voce melodiosa.
«Che bello vederti alla mia tavola, Nick. Mi ricordi una... una
rosa, una rosa purissima. Non trovi?.» Si voltò verso la signorina
Baker per averne conferma. «Una rosa purissima?»
No, non era vero. Non somiglio neanche lontanamente a una
rosa. Stava semplicemente improvvisando, ma lasciava fluire un
calore appassionato come se il suo cuore stesse cercando di raggiungerti,
celato in una di quelle parole sussurrate, frementi. Poi,
improvvisamente, gettò il tovagliolo sul tavolo e, scusandosi, entrò
in casa.
Capitolo Primo
49
La signorina Baker ed io ci scambiammo una breve occhiata consapevolmente
priva di significato. Stavo per dire qualcosa quando
si alzò cautamente e mi zittì con un Sss! in tono di avvertimento.
Un mormorio sommesso ed appassionato proveniva dalla stanza
accanto e la signorina Baker si protendeva in avanti senza alcun
ritegno cercando di origliare qualcosa. Il mormorio per qualche
istante fu quasi comprensibile, poi scese di tono per rimontare appassionatamente
e, quindi, cessare del tutto.
«Quel signor Gatsby di cui parlava è il mio vicino di casa...» dissi.
«Non parli. Voglio sentire cosa succede.»
«Sta succedendo qualcosa?» chiesi con aria innocente.
«Intende dire che non sa nulla?» rispose la signorina Baker sinceramente
sorpresa. «Credevo lo sapessero tutti.»
«Io no.»
«Beh...» disse con esitazione «Tom ha una donna a New York.»
«Ha una donna?» ripetei con aria assente.
Lei annuì. «Potrebbe avere la decenza di non telefonargli ad ora
di cena. Non crede?»
Qualche istante prima che riuscissi a cogliere il senso di ciò che
aveva inteso dirmi, ci fu lo svolazzo di un vestito e lo scricchiolio
degli stivali di cuoio e Tom e Daisy tornarono a tavola.
«Non si poteva evitare!» si lamentò Daisy con nervosa allegria.
Si sedette, osservò con aria interrogativa la signorina Baker e poi
me, quindi continuò: «Ho dato uno sguardo fuori per qualche minuto,
ed è davvero romantico. Cè un uccellino sul prato, credo sia
un usignolo arrivato con il Cunard o con la White Star Line. È lì che
canta...» poi con voce melodiosa: «è romantico, non è vero Tom?»
«Davvero molto romantico» rispose e poi tristemente si rivolse a me:
«se cè ancora luce, dopo cena, voglio portarti a vedere le scuderie.»
Il telefono riprese a suonare, inaspettatamente, e mentre Daisy scuoteva
con energia la testa verso Tom, la faccenda delle scuderie, come del
Il Grande Gatsby
50
resto tutti gli altri argomenti sfiorati, svanirono nellaria. Tra i frammenti
infranti degli ultimi cinque minuti a tavola, ricordo le candele che vennero
riaccese senza alcun motivo ed il desiderio di guardare ciascuno direttamente,
senza però incrociare lo sguardo di nessuno. Certo non potevo
intuire cosa stessero pensando Daisy e Tom, ma credo che la stessa signorina
Baker, che pure ostentava un forte scetticismo, non fosse in grado di
ignorare del tutto la penetrante urgenza metallica di questo quinto ospite.
A persone dindole diversa, forse, quella situazione sarebbe potuta
sembrare affascinante... il mio istinto fu di telefonare immediatamente
alla polizia. Dei cavalli, va da sé, non si parlò più.
Tom e la signorina Baker, con alcuni centimetri di crepuscolo tra
loro, rientrarono mestamente verso la libreria come fossero diretti
a una veglia davanti ad un corpo perfettamente tangibile mentre,
cercando di apparire piacevolmente interessato e un po insensibile,
io seguii Daisy lungo una sorta di catena di verande collegate tra
loro fino a quella della facciata principale. Nella profonda oscurità
ci sedemmo accanto su un divano di vimini.
Daisy si prese il viso tra le mani, quasi a saggiarne i lineamenti
stupendi, e i suoi occhi riemersero pian piano nel crepuscolo vellutato.
Notai che era animata da forti emozioni, così le rivolsi qualche
domanda rilassante sulla bambina.
«Non ci conosciamo poi così bene, Nick» disse improvvisamente.
«Anche se siamo cugini. Non sei venuto al mio matrimonio.»
«Non ero ancora rientrato dalla guerra.»
«È vero.» Esitò un po. «Beh, ho attraversato un periodo piuttosto
difficile, Nick, ed ora sono diventata cinica su tutto.» Evidentemente
aveva le sue ragioni per esserlo. Attesi un po ma non disse
nientaltro, quindi tornai sullargomento di sua figlia con poca convinzione.
«Immagino che parli e... che mangi e tutto il resto.»
«Oh, si.» Mi guardò con aria assente. «Ascolta, Nick; lascia che
ti racconti cosa dissi quando nacque. Ti va di ascoltarmi?»
Capitolo Primo
51
«Con molto piacere.»
«Così capirai perché ho preso a pensarla così... sulle cose. Bene, non
aveva ancora unora e Tom Dio solo sa dovera. Mi risvegliai dalletere
con una sensazione di totale abbandono e chiesi subito allinfermeria
se fosse un bambino o una bambina. Mi rispose che era una bambina
e così voltai la testa e piansi. Va bene dissi mi fa piacere che sia
femmina. E spero che sarà una stupida... è la cosa migliore per una
bambina, a questo mondo, una bella e piccola stupida. Vedi, sono
penso che tutto sia terribile, comunque» continuò con convinzione.
«Lo pensano tutti... tutte le persone più istruite. E ne sono convinta
anchio. Sono stata dappertutto e ho visto e fatto tutto.» Gli occhi le
brillavano in modo provocante, un po come quelli di Tom, e rise con
allarmante disprezzo. «Complicata... Oh Dio, sono complicata!»
Nel momento stesso in cui la sua voce si spense, cessando di
catturare la mia attenzione, compresi la profonda falsità di quanto
mi aveva detto. Mi fece sentire a disagio quasi come se lintera
serata altro non fosse stato che un espediente per carpire in me un
sentimento favorevole.
Attesi qualche istante e, come previsto, mi guardò con un sorriso
affettato su quel viso delizioso, quasi avesse appena confessato
di far parte, con Tom, di unesclusiva società segreta.
Dentro, la stanza cremisi fioriva di luce.
Tom e la signorina Baker sedevano ai due lati del lungo divano,
lei gli stava leggendo a voce alta un articolo dal Saturday Evening
Post... Le parole, borbottate senza modulazione, si susseguivano in
un tono rilassante. La luce della lampada, che brillava sugli stivali
di lui mentre era spenta sui capelli gialli come le foglie dautunno
di lei, scintillò lungo la carta quando voltò la pagina con uno scatto
dei muscoli slanciati delle braccia.
Quando entrammo ci tenne in silenzio per qualche istante con
una mano alzata.
Il Grande Gatsby
52
«Continua...» disse lanciando la rivista sul tavolo «...sul prossimo
numero.» Il suo corpo simpose con un movimento repentino del
ginocchio ed ella si alzò. «Le dieci in punto» osservò, quasi stesse
leggendo lora sul soffitto. «Si è fatta lora, per questa brava ragazza,
di andare a letto.»
«Jordan domani parteciperà ad un torneo» spiegò Daisy «su a
Westchester.»
«Oh... lei è Jordan Baker.» Ora capivo perché il suo volto mi era
familiare; la sua espressione piacevole ed altezzosa mi aveva scrutato
dalle fotografie di molti rotocalchi sulla vita sportiva di Asheville,
Hot Springs e Palm Beach. Avevo anche sentito qualche storia
sul suo conto, qualcosa di poco lusinghiero, ma di cosa si trattasse
lavevo dimenticato da un pezzo.
«Buonanotte» disse dolcemente. «Ti prego, svegliami alle otto.»
«Se ti sveglierai.»
«Lo farò. Buonanotte, signor Carraway. Ci rivedremo presto.»
«Certo che vi rivedrete» confermò Daisy «In effetti credo che combinerò
un matrimonio. Vieni a trovarci spesso, Nick, e io vi... oh... vi butterò
tra le braccia luno dellaltra. Si... vi rinchiuderò, per caso, dentro un guardaroba,
vi metterò su una barca e vi spingerò a largo, tutte cose così...»
«Buonanotte» gridò la signorina Baker dalle scale. «Io non ho
sentito una parola.»
«È una ragazza molto carina» disse Tom un momento dopo. «Non
dovrebbero lasciarla correre su e giù per il paese in questo modo.»
«Chi dovrebbe impedirlo?» domandò Daisy freddamente.
«I suoi.»
«I suoi sono una zia di quasi mille anni. E poi ci penserà Nick
a lei, non è vero Nick? Trascorrerà molti fine settimana qui da noi
questestate. Credo che laria di casa le gioverà molto.»
Daisy e Tom si guardarono per un istante in silenzio.
«È di New York?» chiesi frettolosamente.
Capitolo Primo
53
«Di Louisville. Ci abbiamo trascorso la nostra candida adolescenza.
La nostra bella e innocente...»
«Hai fatto un discorsetto intimo a Nick sulla veranda?» chiese
Tom improvvisamente.
«Lho fatto?» Si voltò verso di me. «Non me ne ricordo, ma
credo che abbiamo parlato della razza nordica. Si, ne sono sicura.
Questa cosa ci ha preso di sorpresa e poi...»
«Non credere a tutto ciò che ascolti, Nick» mi avvertì Tom.
Dissi distrattamente che non avevo sentito una sola parola e qualche
minuto dopo mi alzai per tornarmene a casa. Vennero alla porta con
me e si fermarono luno accanto allaltra in un allegro angolo di luce.
Non appena avviai il motore, Daisy gridò perentoriamente:
«Aspetta! Ho dimenticato di chiederti una cosa, ed è importante.
Abbiamo sentito dire che sei fidanzato con una ragazza del West.»
«È vero» aggiunse Tom gentilmente. «È girata voce che sei fidanzato.»
«Si tratta di una calunnia. Sono troppo povero.»
«Ma noi labbiamo sentito» insisté Daisy, sorprendendomi col
suo aprirsi nuovamente come un fiore. «Labbiamo sentito da ben
tre persone perciò devessere vero.»
Ovviamente avevo ben chiaro a cosa si riferissero, ma non ero
nemmeno lontanamente fidanzato. Il fatto che quei pettegolezzi
fossero giunti alle pubblicazioni di matrimonio, era una delle ragioni
per cui me ne ero venuto allEst. Non puoi smettere di frequentare
una vecchia amica per via delle dicerie e, daltra parte, non
avevo alcuna intenzione di diventare il protagonista dei pettegolezzi
con un matrimonio.
Questo loro interesse, in un certo senso, mi commuoveva e li faceva
sembrare meno distanti per la loro ricchezza... ciononostante
ero confuso e un po disgustato andando via. Pensavo che la soluzione
per Daisy fosse fuggire da quella casa, bimba al collo... ma, a
quanto pareva, non erano queste le sue intenzioni.
Il Grande Gatsby
54
Quanto a Tom, il fatto che avesse una donna a New York era,
in realtà, meno sorprendente del crederlo depresso per un libro.
Qualcosa lo stava costringendo a rosicchiare la cornice delle vecchie
convinzioni, quasi che il suo possente egotismo fisico non fosse
più sufficiente a sostenere un cuore dispotico.
Lestate era già piena sui tetti delle case, dei bar e dei distributori
ai lati della strada dove le nuove pompe di benzina, rosse, erano
immerse in cerchi di luce e quando raggiunsi la mia abitazione a
West Egg, infilai lauto nella rimessa e sedetti, per un bel po, in
giardino su di un rullo per prati abbandonato.
Il vento aveva soffiato a lungo, lasciando una notte brillante e rumorosa,
col battito delle ali sugli alberi e un suono persistente di organo:
la possente voce della terra che si manifestava attraverso le rane
gracidanti e piene di vita. La sagoma di un gatto in movimento ondeggiò
contro il chiaro di luna e, voltandomi per seguirne i movimenti,
mi accorsi di non essere solo... una decina di metri più in là, era emersa
dallombra della villa del mio vicino, una figura che ora se ne stava
con le mani in tasca a contemplare la polvere dargento del manto
stellato. Qualcosa in quei movimenti rilassati e la presa ben salda dei
suoi piedi sul prato mi suggerirono che si trattasse del signor Gatsby
in persona, uscito a controllare quale fosse la sua quota di cielo locale.
Pensai di chiamarlo. La signorina Baker mi aveva parlato di lui
a cena e questo sarebbe bastato per una presentazione. Ma non lo
chiamai, poiché diede unimprovvisa dimostrazione di essere felice
di trovarsi da solo... allungò le sue braccia verso il mare scuro in
un modo strano e, per quanto fossi piuttosto lontano, avrei potuto
giurare che stesse tremando.
Senza volerlo mi trovai a guardare verso il mare... e non distinsi
nulla ad eccezione di una sola luce verde, piccola e distante, forse
lestremità di un molo. Quando tornai a cercare con lo sguardo
Gatsby era svanito e fui di nuovo nelloscurità irrequieta.
55
Ametà percorso tra West Egg e New York, lautostrada si affianca
alla ferrovia e la costeggia per un quarto di miglio,
quasi volesse ritrarsi da una certa area desolata del territorio.
Questa è la Valle delle Ceneri una landa irreale nella quale le
ceneri crescono come il grano sulle colline, sui crinali e nei giardini
grotteschi, dove prende la forma di case, comignoli e volute di fumo
e, infine, con uno sforzo trascendentale, di uomini che si muovono
nella luce fioca e già si sbriciolano nellaria polverosa. Di tanto in
tanto una fila di carrelli grigi striscia lungo un percorso invisibile
ed esala un gemito spettrale arrestandosi. È allora che gli uomini
grigio-cenere vi si avventano, muniti di pale di piombo, innalzando
una nube impenetrabile a protezione delle loro oscure attività.
Ma, sopra questo mondo grigio dove la polvere cupa fluttua senza
sosta, si avvertono subito gli occhi del Dottor T.J. Eckleburg. Sono
occhi blu e giganteschi le retine alte una iarda. Non ti guardano
da un volto, ma da un paio di enormi occhiali gialli che poggiano
su di un naso inesistente. Probabilmente qualche oculista burlone li
avrà fatti mettere lì per pubblicizzare il suo studio nei Queens e poi
sarà piombato lui stesso nella cecità eterna o se li sarà dimenticati
andandosene altrove. Ma i suoi occhi, un po annebbiati e sbiaditi
dai tanti giorni sotto il sole e la pioggia, continuano a meditare su
quella solenne discarica.
Capitolo Secondo
Il Grande Gatsby
56
La valle delle ceneri è delimitata, su di un lato, da un piccolo fiume
maleodorante e quando il ponte levatoio viene alzato per far passare le
chiatte, i passeggeri in attesa sui treni possono ammirare questo squallido
scenario anche per più di mezzora. Si fa sempre sosta lì, almeno un
minuto, e fu per questo motivo che conobbi lamante di Tom Buchanan.
Il fatto che ne avesse una era risaputo ovunque lo conoscessero.
La gente che frequentava aveva da ridire sullabitudine di portarla
nei ristoranti più in voga dove, dopo averla lasciata al tavolo, ciondolava
dalluno allaltro chiacchierando con chiunque conoscesse.
Nonostante fossi curioso di vederla, non avevo alcun desiderio di
incontrarla, però accadde. Andai a New York, in treno, con Tom
un pomeriggio e, quando ci fermammo nei pressi dei cumuli di
cenere, lui saltò in piedi, mi strattonò per il gomito e mi costrinse,
letteralmente, a scendere dalla carrozza.
«Scendiamo» insisté. «Voglio farti conoscere la mia ragazza».
Penso che a pranzo avesse concluso un buon affare: la sua determinazione,
nel volermi affianco, rasentò la violenza. Il presupposto,
tipico della sua superbia, era che la domenica pomeriggio non
potessi avere nientaltro di meglio da fare.
Lo seguii oltre lo steccato basso e imbiancato a calce della ferrovia;
tornammo indietro per un centinaio di iarde lungo la strada, sotto lo
sguardo insistente del Dottor Eckleburg. Lunico edificio in vista era
una piccola costruzione in mattoni gialli sul limitare di quella terra
desolata affacciato su di una sorta di minuscola strada maestra oltre
la quale cera il nulla assoluto. Uno dei tre negozi che ospitava era da
affittare, un altro era un ristorante aperto tutta la notte, raggiungibile
da un sentiero di cenere; il terzo era un garage Officina. George B.
Wilson. Compravendita di automobili dove seguii Tom.
Linterno era misero e spoglio; lunica auto visibile era il relitto
coperto di polvere di una Ford seminascosta in un angolo buio. Immaginai
che quella squallida officina fosse una copertura e che al
Capitolo Secondo
57
piano superiore si celassero dei romantici e suntuosi appartamenti,
quando sulla porta dellufficio apparve il proprietario in persona
che si stava ripulendo le mani con uno straccio. Era un uomo biondo,
avvilito, anemico e vagamente di bellaspetto. Nel vederci, un
lampo di umida speranza gli illuminò gli occhi azzurro chiaro.
«Ehilà, Wilson, vecchio mio» esordì Tom dandogli una pacca
sulla spalla. «Come ti vanno gli affari?»
«Non mi posso lamentare» rispose Wilson con poca convinzione.
«Quando si decide a vendermela quella macchina?»
«La prossima settimana; ora ci sta lavorando un mio uomo.»
«Se la prende comoda, non le pare?»
«No, affatto» ribatté freddamente Tom. «E ti dico di più, se la
pensi così, sarà meglio che la venda a qualcun altro.»
«Non intendevo questo» si scusò Wilson in fretta. «Volevo soltanto
dire
»
La voce gli si spense in gola mentre Tom si guardava attorno nel
garage, impaziente. Poi udii dei passi sulle scale e un attimo dopo
una figura corpulenta di donna coprì completamente la luce che
proveniva dalla porta dellufficio. Aveva passato la trentina ed era
un po in carne, ma riusciva a camuffare quei chili di troppo con
un portamento molto sensuale, tipico di alcune donne. Il suo viso,
che emergeva da un vestito blu scuro macchiato di crépe de Chine,
non risaltava per alcuna bellezza, in compenso era animata da una
vitalità chiaramente percepibile, sembrava quasi che i muscoli le
vibrassero senza sosta appena sotto la pelle. Sorrise lentamente e,
superando il marito come fosse un fantasma, strinse la mano a Tom
per poi guardarlo arrossire fin dentro gli occhi. Sinumidì le labbra
e, senza voltarsi, disse al marito con voce molle e roca:
«Porta qualche seggiola, così almeno possiamo sederci.»
«Oh, certo» obbedì veloce Wilson avviandosi verso il piccolo ufficio,
scomparendo quasi contro le pareti color cemento. Una polvere
Il Grande Gatsby
58
di cenere velava la sua tuta scura, i capelli scoloriti e tutto ciò che cera
nelle vicinanze eccetto sua moglie, che si era avvicinata a Tom.
«Voglio vederti» le disse con decisione. «Prendi il prossimo treno.»
«Va bene.»
«Ci vedremo alledicola al piano di sotto».
Lei annuì e si scostò proprio mentre George Wilson stava uscendo
con due sedie dalla porta dellufficio.
Laspettammo giù, per strada, lontano da occhi indiscreti. Eravamo
a pochi giorni dal Quattro Luglio e un bambino italiano, grigio e magrissimo,
stava disponendo alcuni petardi in un solco lungo la ferrovia.
«Un posto davvero terribile, non trovi?» mi chiese Tom scambiando
uno sguardo col Dottor Eckleburg.
«Tremendo.»
«Le fa bene venir via.»
«Suo marito non dice nulla?»
«Wilson? È convinto che vada a trovare sua sorella a New York.
È così stupido che non sa neanche di essere al mondo.»
Così Tom Buchanan, la sua ragazza ed io ci recammo insieme
a New York anzi, a dire il vero, non proprio insieme perché la
signora Wilson prese posto, discretamente, in unaltra carrozza. Si
trattava di una concessione di Tom alla suscettibilità degli abitanti
di Est Egg che si fossero trovati su quel treno.
Si era cambiata dabito e ora ne indossava uno di mussolina
marrone con delle figure stampate che si tese sui fianchi un po
abbondanti mentre Tom laiutava a scendere sulla banchina a New
York. In edicola acquistò una copia del Town Tattle e una rivista
di cinema mentre nel drugstore della stazione prese una crema
idratante e una boccetta di profumo. Giunti al piano di sopra, nel
grandioso viale daccesso pieno di suoni riecheggianti, lasciò sfilare
quattro taxi prima di sceglierne uno nuovo, color lavanda e dagli
interni grigi imbottiti, col quale uscimmo dallimponente stazione
Capitolo Secondo
59
per andare incontro al sole ardente. Dun tratto, però, si scostò dal
finestrino per sporgersi in avanti e bussare sul vetro divisorio.
«Voglio prendere uno di quei cani» disse con ardore. «Ne voglio
uno per lappartamento. È bello avere
un cane.»
Tornammo indietro verso un vecchio dai capelli grigi che somigliava
incredibilmente a John D. Rockefeller. In una cesta che gli
oscillava al collo, se ne stava rannicchiata una dozzina di cuccioli
davvero piccoli e di razza imprecisata.
«Di che tipo sono?» chiese la signora Wilson sempre con impazienza
mentre luomo si avvicinava al finestrino del taxi.
«Di tutte le razze. Quale le piacerebbe, signora?»
«Vorrei uno di quei cani poliziotto; mica ne ha uno di quel tipo?»
Luomo sbirciò dubbioso nel canestro, poi ci infilò la mano e tirò
su penzoloni un cucciolo tutto agitato tenendolo per la collottola.
«Questo non è un cane poliziotto» disse Tom.
«No, in effetti non è esattamente un cane poliziotto» rispose
luomo con una punta di delusione nella voce. «Si direbbe più un
airedale». Passò una mano sulla pelliccia bruna del dorso. «Guardi
che pelo. Un pelo magnifico. Questo è un cane che non vi darà mai
noie per i malanni da freddo.»
«È carino» disse la signora Wilson entusiasta. «Quanto ci costa?»
«Questo cane?» Luomo lo guardò con ammirazione. «Questo
cane le costerà dieci dollari.»
Lairedale poiché indubbiamente da qualche parte un airedale
doveva esserci nonostante le sue zampe fossero di un bianco stupefacente
passò di mano e si adagiò in grembo alla signora Wilson
che prese ad accarezzargli il pelo a prova di intemperie, ormai rapita.
«È un maschio o una femmina?» chiese lei in modo delicato.
«Quel cane? Quel cane è un maschio.»
«È una cagna» disse Tom bruscamente. «Ecco i tuoi soldi. Va e
compratene altri dieci.»
Il Grande Gatsby
60
Ci dirigemmo verso la Quinta Strada, così calda e soave, quasi
bucolica in quella domenica pomeriggio estiva; non mi sarei meravigliato
nel vedere un gregge di pecore svoltare langolo.
«Ferma» dissi «devo lasciarvi qui.»
«No che non puoi» sintromise rapidamente Tom. «Myrtle ce
lavrà con te se non vieni su con noi nellappartamento. Non è vero,
Myrtle?»
«Salga» insisté lei. «Telefonerò a mia sorella Catherine. La gente
che se ne intende dice che è davvero carina.»
«Beh, mi farebbe piacere, ma
»
Proseguimmo, tagliando di nuovo il Parco verso ovest, in direzione
delle West Hundred. Alla 158 Strada il taxi si fermò davanti
ad una fetta di una lunga torta bianca di case in affitto. Gettando
uno sguardo regale, da padrona di casa che osserva il suo quartiere,
la signora Wilson prese con sé il cane e le altre compere ed entrò
con aria altezzosa.
«Vado ad invitare i McKee» annunciò mentre salivamo nellascensore.
«E, ovviamente, chiamerò anche mia sorella.»
Lappartamento era allultimo piano un piccolo soggiorno, una
piccola sala da pranzo, una piccola camera da letto ed un bagno.
La mobilia del soggiorno quasi straripava dalle porte, per via di un
divano e delle poltrone esageratamente grandi, cosicché muoversi
in quellambiente, significava inciampare continuamente in scene
di gentildonne dondolanti nei giardini di Versailles. Lunico quadro
era in realtà una gigantografia di una foto, che rappresentava,
allapparenza, una gallina che covava su di una roccia sfocata. A
guardarla da una certa distanza, però, la gallina si trasformava in un
cappellino e lintera stanza si riempiva dellespressione serafica di
unanziana e robusta signora. Alcune vecchie copie del Town Tattle
giacevano sul tavolo insieme ad una copia del Simon called Peter
e ad altre piccole riviste scandalistiche di Broadway. La signora
Capitolo Secondo
61
Wilson si prese subito cura del cane. Laddetto allascensore, anche
se riluttante, andò a cercare una scatola con della paglia, un po di
latte e, di sua iniziativa, un barattolo di biscotti duri per cani uno
dei quali rimase a sciogliersi apaticamente per tutto il pomeriggio
in un piattino di latte. Nel frattempo, Tom aveva tirato fuori una
bottiglia di whisky da unanta dellarmadio chiusa a chiave.
In tutta la mia vita mi sono ubriacato soltanto due volte e la seconda
fu quel pomeriggio, cosicché tutto ciò che accadde fu avvolto
da un alone oscuro, brumoso, anche se, fin dopo le otto, nellappartamento
ci fu un sole vivace. La signora Wilson, seduta sulle ginocchia
di Tom, chiamò diverse persone al telefono; poi finirono le
sigarette e scesi a comprarne al drugstore allangolo. Quando rientrai
erano scomparsi entrambi così sedetti, con discrezione, in soggiorno
e presi a leggere un capitolo del Simon Called Peter - delle
due luna: o era terribile il libro o il whisky distorceva le cose poiché
non riuscivo a comprendere davvero nulla di ciò che leggevo.
Non appena Tom e Myrtle dopo il primo bicchiere, la signora
Wilson ed io prendemmo a chiamarci per nome riapparvero, cominciò
ad arrivare gente.
La sorella, Catherine, era una ragazza snella e smaliziata sulla
trentina con un caschetto di capelli rossi, un po appiccicaticci, e
un colorito bianco lattiginoso per via della cipria. Si era fatta togliere
le sopracciglia e le aveva ridisegnate con una curva più maliziosa,
ma gli sforzi della natura, per ripristinare loriginale linea,
le rendevano il viso come sfocato. Nel muoversi faceva tintinnare,
incessantemente, numerosi braccialetti di ceramica che le si agitavano
su e giù per le braccia. Entrò con una tale aria da padrona
di casa e si guardò attorno in modo così possessivo verso larredo,
che mi chiesi se non abitasse lì. Quando, però, glielo chiesi, rise
scompostamente, ripeté la mia domanda a voce alta e mi disse che
abitava con unamica in un hotel.
Il Grande Gatsby
62
Il signor McKee era un uomo pallido e femmineo che abitava al
piano di sotto. Si era appena rasato poiché aveva una macchia bianca
di schiuma da barba sullo zigomo; salutò, col massimo riguardo, tutti
i presenti. Minformò del fatto che era nel giro dellarte e dopo
un po capii che era un fotografo e che aveva realizzato lui quella
gigantografia sfocata della madre della signora Wilson che aleggiava
come un ectoplasma sulla parete. Sua moglie era stridula, apatica,
rotondetta ed orribile. Mi disse, orgogliosa, che da quando si erano
sposati suo marito laveva fotografata ben centoventisette volte.
La signora Wilson sera cambiata dabito poco prima ed ora era
tutta attillata in un elaborato vestito da pomeriggio duno chiffon
color crema che emetteva un continuo fruscio mentre si muoveva
per la stanza. Sotto linflusso del vestito, anche la sua personalità
era mutata. La vitalità intensa, così evidente nellofficina, sera trasformata
in unalterigia impressionante. Le sue risa, i gesti e le affermazioni,
erano ora sempre più violentemente affettati e, a mano
a mano che si espandeva, la stanza sembrava sempre più piccola,
finché parve che stesse girando su di un perno rumoroso e scricchiolante,
nellaria piena di fumo.
«Mia cara» disse rivolta alla sorella con un gridolino di maniera,
«La maggior parte di questi parassiti timbroglierà sempre. Tutto
ciò che vogliono è il denaro. La settimana scorsa chiamai una donna
per sistemarmi un po i piedi e, quando mi presentò il conto, a
momenti cera da credere che mavesse tolta lappendice.»
«Come si chiamava quella donna?» chiese la signora McKee.
«Signora Eberhardt. Va in giro a sistemare i piedi alla gente, a
domicilio.»
«Quanto mi piace il suo vestito» osservò la signora McKee, «Lo
trovo delizioso.»
La signora Wilson rigettò il complimento, inarcando le sopracciglia
con sdegno.
Capitolo Secondo
63
«È solo uno straccio vecchio,» disse «me lo infilo quando proprio
non importa come mi vesto.»
«Ma sembra magnifico su di lei, se capisce cosa intendo» insisté
la signora McKee. «Se Chester potesse ritrarla in quella posa, credo
che ne verrebbe fuori qualcosa.»
Guardammo tutti, in silenzio, la signora Wilson che si spostò
una ciocca di capelli dagli occhi e ci ricambiò con un sorriso smagliante.
Il signor McKee la guardò intensamente chinando il capo
di lato, poi mosse la mano avanti e indietro, con lentezza, quasi a
sfiorarle il viso.
«Dovrei cambiare la luce,» disse dopo qualche istante. «Mi piacerebbe
far risaltare per bene i lineamenti. E vorrei cercare di prenderle
tutti i capelli sulla nuca.»
«Non credo che andrebbe cambiata la luce», si lamentò la signora
McKee, «Penso che sia
»
Suo marito la zittì con un SH! e tutti tornammo a osservare
il soggetto, finché Tom Buchanan non sbadigliò rumorosamente e,
quindi, salzò in piedi.
«Voi McKee dovete bere qualcosa,» disse. «Porta altro ghiaccio
e dellacqua minerale, Myrtle, prima che si addormentino tutti.»
«Lho chiesto a quel ragazzo, il ghiaccio.» Myrtle inarcò le sue
sopracciglia, disperata, per linefficienza del personale di servizio,
anche nelleseguire ordini così banali. «Questa gente! La devi seguire
continuamente.»
Mi guardò e rise senza un motivo. Poi si gettò sul cane, lo baciò
entusiasta e si diresse, ancheggiando, verso la cucina, quasi ci fossero
una dozzina di cuochi ad attendere i suoi ordini.
«Ho realizzato alcune cose davvero carine a Long Island», disse
il signor McKee.
Tom lo guardò privo di espressione.
«Due le abbiamo giù, in cornice.»
Il Grande Gatsby
64
«Due cosa?» domandò Tom.
«Due studi. Uno lho chiamato Mountauk Point i Gabbiani, e
laltro Montauk Point il Mare.
Catherine mi sedette affianco, sul divano.
«Anche lei vive a Long Island?» domandò.
«A West Egg.»
«Davvero? Sono stata da quelle parti, un mese fa, per una festa.
Da un tale di nome Gatsby. Lo conosce?»
«Vivo alla porta accanto.»
«Beh, si dice che sia nipote, o cugino, del Kaiser Guglielmo. È
da lì che vengono tutti i suoi soldi.»
«Dice sul serio?»
Lei annuì.
«Mi fa un po paura. Impazzirei allidea di averlo contro.»
Questappassionante descrizione del mio vicino fu interrotta
dallimprovvisa attenzione della signora McKee per Catherine:
«Chester, forse potresti fare qualcosa con lei
» se ne uscì, ma
McKee si limitò ad annuirle distrattamente per poi riportare la sua
attenzione su Tom.
«Mi piacerebbe lavorare di più a Long Island se soltanto mi presentassero.
Tutto quello che chiedo è che mi lascino provare.»
«Lo dica a Myrtle», disse Tom, scoppiando in una serie di risatine
mentre la signora McKee entrava con un vassoio. «Lei le farà
una lettera di presentazione, non è vero Myrtle?»
«Che cosa farò?» chiese allarmata.
«Farai una lettera di presentazione al signor McKee, per tuo
marito, così potrà fare qualche studio su di lui.» Le sue labbra si
mossero silenziose per qualche istante mentre inventava George B.
Wilson alla pompa di benzina, o qualcosa del genere.»
Catherine mi si chinò più vicina, sussurrandomi ad un orecchio:
«Nessuno dei due sopporta la persona che ha sposato.»
Capitolo Secondo
65
«Lei dice?»
«Non li sopportano.» Guardò prima Myrtle e poi Tom. «Ma dico
io
perché continuare a viverci insieme se non li sopportano? Se
fossi al posto loro, avrei già divorziato per risposarmi di nuovo.»
«Neanche a lei piace Wilson?»
La risposta a questa domanda fu inattesa. Giunse da Myrtle, che
aveva origliato, e fu violenta ed oscena.
«Lo vede?» gridò Catherine trionfante. Abbassò di nuovo la
voce. «In realtà è sua moglie che li sta tenendo divisi. È cattolica e
loro non credono nel divorzio.»
Daisy non era cattolica e fui un po sorpreso da questa elaborata
bugia.
«Quando si sposeranno» continuò Catherine «andranno a vivere
nel West finché non si calmeranno le acque.»
«Sarebbe più discreto andare in Europa.»
«Oh, le piace lEuropa?» esclamò sorpresa. «Sono appena rientrata
da Monte Carlo.»
«Ma davvero!?»
«Giusto un anno fa. Ci andai in compagnia di unaltra ragazza.»
«È stata via a lungo?»
«No, andammo solo a Monte Carlo e tornammo. Passammo,
ovviamente, per Marsiglia. Avevamo più di milleduecento dollari,
quando partimmo, ma li perdemmo tutti in due giorni, nelle salette
private. Fu davvero difficile rientrare, non glielo sto a raccontare.
Dio, come ho odiato quella città!»
Il cielo del tardo pomeriggio illuminò la finestra per un istante,
quasi fosse il blu mieloso del Mediterraneo, poi fui richiamato nella
stanza dalla voce stridula della signora McKee.
«Anchio stavo per commettere un errore» disse con vigore
«stavo per sposare un piccolo ebreo che mi correva dietro da anni.
Sapevo che mera inferiore. Tutti continuavano a ripetermi: LucilIl
Grande Gatsby
66
le, questuomo ti è inferiore! Ma se non avessi incontrato Chester,
quelluomo mi avrebbe avuta di sicuro.»
«Si, ma ascolta,» disse Myrtle Wilson, scuotendo la testa, «almeno
tu non lhai sposato.»
«Lo so, non lho fatto.»
«Beh, io lho sposato», disse Myrtle, in modo ambiguo. «È questa
la differenza tra te e me.»
«Perché lhai fatto, Myrtle?» domandò Catherine. «Nessuno ti
costrinse.»
Myrtle rifletté.
«Lo sposai perché pensavo fosse un gentiluomo» disse alla fine.
«Credevo conoscesse un po di educazione, ma non era degno di
leccarmi le scarpe.»
«Sei stata pazza di lui, per un po» disse Catherine.
«Pazza di lui!» si lamentò Myrtle incredula. «Chi ha detto che
ero pazza di lui? Non sono mai stata pazza di lui più di quanto non
lo sia di quello lì.»
Mindicò improvvisamente e tutti mi guardarono con aria inquisitoria.
Con la mia espressione provai a dimostrare che non avevo
avuto alcun ruolo nel suo passato.
«Lunica volta che sono stata pazza, fu quando lo sposai. In un
certo senso lo sapevo che avrei commesso un errore. Si fece prestare,
da qualcuno, un bel vestito da sposo e non mi disse nulla,
finché un giorno, mentre lui non cera, si presentò un uomo per
riprenderselo.» Si guardò attorno per capire chi la stesse ascoltando.
«Oh, è suo il vestito? dissi. È la prima volta che sento questa
storia. Ma glielo restituii, mi buttai sul letto e piansi per tutto il
pomeriggio, più forte di unorchestra intera.»
«Dovrebbe davvero lasciarlo», concluse Catherine per me. «Vivono
da undici anni in quel garage. E Tom è il primo innamorato
che lei abbia avuto.»
Capitolo Secondo
67
La bottiglia di whisky la seconda ora passava di mano in mano
tra i presenti, ad eccezione di Catherine che stava bene così. Tom
suonò il campanello per chiamare il portiere e lo mandò a prendere
certi sandwich piuttosto rinomati che costituivano, da soli, unabbondante
cena. Volevo uscire per incamminarmi verso il parco, nel dolce
crepuscolo, ma ogni volta che provavo ad alzarmi, finivo invischiato
in qualche assurda conversazione che mi tirava indietro, come fosse
una corda, verso la sedia. Eppure, alta sopra la città, la nostra fila di
finestre gialle doveva aver aggiunto la sua quota di segreti intrighi agli
occhi dello spettatore, giù nella strada buia, ed io ero anche con lui,
guardavo verso lalto e mi stupivo. Ero dentro e fuori, allo stesso tempo
attratto e respinto dallinesauribile varietà della vita.
Myrtle accostò la sua sedia alla mia e, improvvisamente, il suo
alito caldo mi riversò addosso la storia del primo incontro con Tom.
«Avvenne su quei due sediolini che stanno luno di fronte allaltro
e restano sempre liberi sul treno. Stavo andando a New York
per incontrare mia sorella e passare da lei la notte. Lui indossava un
abito da sera e delle scarpe di vernice ed io non riuscivo a staccargli
gli occhi di dosso, anzi ogni volta che lui volgeva il suo sguardo verso
di me, dovevo far finta di stare guardando la pubblicità sopra di
lui. Quando arrivammo alla stazione, mi si avvicinò e il suo sparato
bianco mi premette sul braccio così gli dissi che avrei chiamato
un poliziotto, ma lui sapeva che stavo mentendo. Ero così eccitata
che quando salii sul taxi con lui, quasi non mi accorsi che in realtà
non stavo prendendo la metropolitana. Tutto ciò che riuscivo a
pensare, era La vita non è eterna, la vita non è eterna.»
Si voltò verso la signora McKee e la stanza risuonò della sua
risata forzata.
«Mia cara» si lamentò «le regalerò questo vestito non appena
me ne sarò stufata. Ne prenderò un altro domani. Dovrei preparare
una lista delle cose da fare. Un massaggio, un messa in piega,
Il Grande Gatsby
68
un collare per il cane ed uno di quei simpatici portacenere con la
molla, una corona con il nastro nero per la tomba di mia madre,
che duri per tutta lestate. Scriverò una lista per non dimenticarmi
tutte le cose che devo fare.»
Erano le nove in punto ma quando guardai subito dopo lorologio
mi accorsi che erano già le dieci. Il signor McKee stava
dormendo su una sedia, con i pugni chiusi in grembo, quasi fosse
la fotografia di un uomo dazione. Tirai fuori il mio fazzoletto dal
taschino e gli tolsi quella macchia di schiuma da barba, secca, dalla
guancia: mi aveva ossessionato per tutto il pomeriggio.
Il cagnolino se ne stava seduto sul tavolo e guardava, attraverso
il fumo, con occhi stanchi e ogni tanto guaiva debolmente. Le
persone sparivano per poi ricomparire, programmavano di andare
da qualche parte e poi si perdevano di vista e si cercavano di nuovo,
ritrovandosi a pochi passi di distanza. Verso mezzanotte Tom
Buchanan e la signora Wilson si trovarono luno di fronte allaltra
a discutere, animatamente, del diritto di lei a pronunciare il nome
di Daisy.
«Daisy! Daisy! Daisy!» gridava la signora Wilson. «Lo ripeto
quante volte mi pare! Daisy! Dai
»
Con un rapido e abile movimento, Tom Buchanan le ruppe il
naso con il palmo della mano.
A quel punto ci furono asciugamani macchiate di sangue, sul
pavimento, voci di donna che rimproveravano e, al di sopra di tutta
questa confusione, un prolungato gemito, rotto dal dolore. McKee
si riebbe dal suo pisolino e si diresse, stordito, verso la porta. Quando
fu a metà strada si voltò e assistette alla scena sua moglie e Catherine
rimproveravano e consolavano, mentre inciampavano qua
e là, in quellammasso di mobilia, portando dei presidi di pronto
soccorso e una donna, disperata, sul divano, sanguinava copiosamente
mentre cercava di sistemare qualche copia del Town TattCapitolo
Secondo
69
le sulla tappezzeria con le scene di Versaille. Poi McKee tornò a
voltarsi e proseguì verso la porta. Prendendo il cappello dal candelabro,
lo seguii.
«Andiamo a cena insieme, qualche volta» mi disse mentre scendevamo
nellascensore cigolante.
«Dove?»
«Dove vuole.»
«Tolga la mano dalla leva» sbottò laddetto allascensore.
«Mi scusi» disse McKee con dignità «Non mi ero accorto di
averla poggiata lì.»
«Va bene» accettai «con molto piacere.»
Ero in piedi accanto al suo letto e lui stava seduto tra le lenzuola,
con indosso la sola biancheria intima, un grande album di
fotografie tra le mani.
La bella e la bestia
Solitudine
Old Grocery Horse
Il ponte
di Brooklin
Poi mi ritrovai, mezzo addormentato, nel gelido piano inferiore
della Pennsylvania Station, a fissare il Tribune del mattino,
aspettando il treno delle quattro.
71
Giungeva musica, nelle notti estive, dalla casa del mio vicino.
Nei suoi giardini blu, uomini e donne andavano e venivano,
come falene, tra i pettegolezzi, lo champagne e le stelle.
Durante lalta marea del pomeriggio, avevo visto degli ospiti tuffarsi
dal pilone di ormeggio, o prendere il sole sulla sabbia bollente della
sua spiaggia, mentre due motoscafi solcavano le acque dello Stretto,
trainandosi dietro degli acquaplani su cascate di schiuma. Nei
week-end la sua Rolls-Royce diventava un omnibus che trasportava
gente da e per la città, a partire dalle nove di mattina finoltre mezzanotte,
mentre la sua station-wagon scorrazzava come un vivace insetto
giallo, per non perdere larrivo di un solo treno. Poi, il lunedì, otto
persone di servizio più un giardiniere extra, ripulivano per tutto il
giorno con ramazze, spazzoloni, martelli e cesoie, riparando i danni
della sera prima.
Ogni venerdì arrivavano, da un fruttivendolo di New York, cinque
casse di arance e limoni ed ogni lunedì le stesse arance e gli
stessi limoni uscivano dalla porta sul retro in piramidi di bucce senza
polpa. Cera una macchina, in cucina, che era in grado di spremere
duecento arance in mezzora, se soltanto il dito del vivandiere
avesse pigiato, per duecento volte, un piccolo pulsante.
Ogni paio di settimane, come minimo, unintera squadra di allestitori
arrivava con alcune centinaia di piedi di tela e luci colorate,
Capitolo Terzo
Il Grande Gatsby
72
sufficienti a trasformare in un albero di Natale lenorme giardino
di Gatsby. Sui tavoli da buffet, guarniti con scintillanti antipasti, i
prosciutti essiccati e aromatizzati si ammassavano accanto alle insalate
dai disegni arlecchineschi o ai maialini e ai tacchini trasformati,
come per magia, in oro scuro. Nel salone principale era stato
allestito un bar, con una vera ringhiera di ottone, ricolmo di gin,
liquori e cordiali dimenticati da tanto di quel tempo che la maggior
parte delle sue ospiti era troppo giovane per poterli riconoscere.
Alle sette è arrivata lorchestra non unorchestrina di cinque elementi
ma una al gran completo con oboi, tromboni, sassofoni, violini,
cornette, flauti e tamburi, sia grandi che piccoli. Gli ultimi bagnanti
sono rientrati dalla spiaggia e ora si vestono al piano di sopra; le auto
provenienti da New York sono state parcheggiate su cinque file, lungo
il viale, mentre le camere, i saloni e le verande sono già gremiti di
persone eccentriche, vestite con colori sgargianti, dai capelli acconciati
secondo le ultime mode e con scialli al di là dellimmaginazione
di un castigliano. Il bar è in piena attività, vassoi fluttuanti, ricolmi di
cocktail, invadono il giardino, finché nellaria non riecheggiano chiacchiericci
e risate, allusioni casuali, presentazioni subito dimenticate e
incontri entusiastici tra donne che mai si erano conosciute prima.
Le luci si fanno via via più luminose mentre la terra, barcollando,
si allontana dal sole; ora lorchestra sta suonando della musica
dorata da cocktail e il coro delle voci raggiunge un tono più alto.
Lallegria, di minuto in minuto, è sempre più contagiosa, sparsa
con prodigalità, lasciata in mancia per una parola spiritosa. I gruppi
cambiano in continuazione, si allargano coi nuovi arrivi, si dissolvono
e si ricreano nel tempo di un respiro già ci sono in giro
ragazze sicure di sé che ondeggiano qua e là tra altre più ingessate,
diventano per un breve, gioioso istante, il centro di un gruppo e
poi, eccitate per il trionfo, volano via nel turbine di facce, voci e
colori sempre diversi sotto la luce cangiante.
Capitolo Terzo
73
Improvvisamente una di queste vagabonde, in un opale tremolante,
coglie al volo un cocktail, lo butta giù per prendere coraggio
e, muovendo le mani come Frisco, balla da sola al centro del palco.
Un momento di silenzio, il direttore dorchestra che cambia il ritmo
per lei, cortesemente, e subito esplodono i commenti, alla falsa
notizia diffusa che in realtà lei sia una controfigura di Gilda Gray
delle Follies. Il party è iniziato.
Credo che la prima sera che andai a casa di Gatsby, fossi uno
dei pochi ospiti a essere stato effettivamente invitato. La gente non
era invitata ci andava e basta. Saltava su delle automobili dirette a
Long Island e, chissà come, finiva alla porta di Gatsby. Una volta lì
era presentata da qualcuno che lo conosceva e, da quel momento,
si comportava come fosse a un parco giochi. Qualche volta capitava
che arrivassero e ripartissero senza neanche aver conosciuto
Gatsby, giunti al party con una semplicità danimo tale che quasi
valeva essa stessa come invito scritto.
Io ero stato davvero invitato. Un autista in livrea azzurra, come
le uova di un pettirosso, aveva attraversato il mio prato, quel sabato,
di buon mattino, con un biglietto sorprendentemente formale, da
parte delluomo per cui lavorava lonore sarebbe stato tutto di
Gatsby, cera scritto, se avessi voluto prendere parte alla festicciola
di quella sera. Mi aveva notato diverse volte e, da tempo, era intenzionato
ad invitarmi, ma una serie particolare di circostanze glielo
avevano impedito firmato Jay Gatsby, in calligrafia maestosa.
Nel mio vestito di flanella bianca, attraversai il prato poco dopo
le sette e vagabondai, piuttosto imbarazzato, in quei turbini e mulinelli
di persone che non conoscevo anche se qualche faccia lavevo vista
sul treno. Fui subito colpito dal numero di giovani inglesi che cerano
in giro; tutti ben vestiti e dallaria piuttosto affamata, tutti a parlare,
con voci basse e seriose, ad americani pingui e prosperosi. Avrei giurato
che stessero vendendo qualcosa: azioni, assicurazioni o automobili.
Il Grande Gatsby
74
In fondo erano tutti consapevoli, in maniera piuttosto angosciante,
dellenorme quantità di denaro che girava loro intorno, convinti che
potessero impossessarsene con poche parole, dette nel modo giusto.
Non appena arrivai, tentai di rintracciare il mio ospite, ma le
due o tre persone a cui mi rivolsi, per sapere dove potesse trovarsi,
mi fissarono in modo così stupito e negarono con tanta veemenza
di averne la più pallida idea che quasi me ne sgattaiolai verso il
tavolo dei cocktail lunico posto, in quel giardino, dove un uomo
solo potesse soffermarsi, senza sembrare emarginato e sperduto.
Ero sul punto di prendermi una grandiosa sbornia, per superare
limbarazzo, quando Jordan Baker uscì dalla casa e rimase in cima
alle scale di marmo, chinandosi un po allindietro e mirando con
sdegnoso interesse giù, verso il giardino.
Che fossi o meno il benvenuto, trovai necessario agganciare qualcuno,
prima di finire a rivolgere frasi di circostanza ai passanti.
«Salve!» ruggii, avanzando verso lei. La mia voce risuonò esageratamente
alta dal giardino.
«Avevo pensato che potesse essere qui», rispose con aria assente,
quando la raggiunsi. «Ricordavo che abita alla porta accanto
»
Mi strinse la mano in modo impersonale, quasi a promettermi che
si sarebbe interessata a me di lì a poco e diede ascolto a due ragazze
dal vestito identico e giallo che serano fermate ai piedi delle scale.
«Salve!» urlarono insieme. «Ci dispiace che non abbia vinto.»
Parlavano del torneo di golf. Lei aveva perso la finale, la settimana
prima.
«Non si ricorda di noi» disse una delle due ragazze vestite di
giallo «ma ci siamo conosciute qui, circa un mese fa.»
«Vi siete tinte i capelli» osservò Jordan ma, nel mio stupore, le ragazze
si erano spostate senza un motivo e la sua considerazione finì per
essere rivolta alla luna prematura, anchessa, senza dubbio, spuntata
come la cena, dal cestino degli addetti al catering. Col braccio di Jordan,
Capitolo Terzo
75
snello e dorato, poggiato al mio, scendemmo le scale e passeggiammo
un po per il giardino. Un vassoio di cocktail fluttuò verso noi attraverso
il crepuscolo e ci sedemmo a tavola con le due ragazze in giallo e tre
uomini, ciascuno dei quali ci fu presentato come il signor Qualcosa.
«Venite spesso a queste feste?» domandò Jordan alla ragazza
che aveva di fronte.
«Lultima volta è stata quando lho incontrata» rispose la ragazza
con tono pronto e deciso. Si voltò verso la sua compagna: «è lo
stesso anche per te, vero Lucille?»
Era così anche per Lucille.
«Mi piace venirci» disse Lucille. «Non bado mai tanto a quello
che faccio, così prendo tutto per il verso giusto. Quando venni
qui, lultima volta, mi strappai il vestito su una sedia, lui mi chiese
il nome e lindirizzo e, dopo neanche una settimana, ebbi un pacchetto
da Croirier con un vestito da sera nuovo.»
«Lha tenuto poi?» chiese Jordan.
«Certo che lho tenuto. Volevo indossarlo stasera, ma era un po
grande di busto e ho dovuto farlo sistemare. È di un bel blu petrolio
con delle perline color lavanda. Duecentosessantacinque dollari.»
«Non cè dubbio che sia un tipo strano, un uomo che fa cose del
genere», disse laltra ragazza con un pizzico di invidia. «Lui non
vuole nessun problema, con nessuno.»
«Chi è che non li vuole?» chiesi.
«Gatsby. Qualcuno mi ha detto
»
Le due ragazze e Jordan si avvicinarono chinandosi.
«Qualcuno mi ha detto che si sospetta abbia ucciso un uomo,
tempo fa.»
Un brivido ci scosse. I tre signori Qualcosa si avvicinarono per
ascoltare incuriositi.
«Non credo che la questione sia questa» disse Lucille scettica
«più che altro lui fu una spia tedesca durante la guerra.»
Il Grande Gatsby
76
Uno degli uomini annuì per confermare.
«Lho sentito dire da un tale che sapeva tutto di lui, poiché sono
cresciuti insieme in Germania», ci assicurò con decisione.
«Oh, no» disse la prima ragazza «non può essere così, perché lui
era nellesercito americano durante la guerra.» Mentre la nostra voglia
di crederle ci faceva voltare di nuovo verso di lei, si sporse in avanti,
con entusiasmo. «Provate a guardarlo, qualche volta, quando non
pensa di essere osservato. Scommetterei che ha ucciso un uomo.»
Socchiuse gli occhi e rabbrividì. Lucille rabbrividì mentre noi
tutti ci guardammo attorno, in cerca di Gatsby. La prova che lui
ispirasse degli intrighi romanzeschi, stava tutta nel fatto che, su di
lui, spettegolavano persone che ritenevano ci fosse ben poco su cui
spettegolare al mondo.
La prima cena ce ne sarebbe stata unaltra dopo la mezzanotte
stava per essere servita, Jordan minvitò a unirmi alla sua compagnia che
era seduta ad un tavolo dallaltro lato del giardino. Cerano tre coppie
sposate e il suo accompagnatore: uno studente universitario ostinato
che si produceva in pesanti allusioni, stupidamente convinto che prima
o poi Jordan gli si sarebbe concessa, completamente o meno. Piuttosto
che vagabondare, questo gruppo aveva mantenuto una certa dignitosa
omogeneità, assumendosi il ruolo di rappresentante della nobiltà originaria
locale Est Egg condiscendente verso West Egg e cautamente
in guardia contro la sua dissolutezza spettroscopica.
«Andiamocene», sussurrò Jordan dopo una mezzora quasi sprecata
inutilmente. «Cè unatmosfera troppo educata per i miei gusti.»
Ci alzammo e mi spiegò che eravamo diretti alla ricerca del nostro
ospite «non lho mai conosciuto» disse «e questo mi mette
un po in imbarazzo.» Lo studente annuì in maniera cinica, con una
nota di malinconia.
Il bar, dove deviammo in prima battuta, era affollato, ma di Gatsby
non cera traccia. Non le riuscì di avvistarlo dallalto delle scale
Capitolo Terzo
77
e non era in veranda. Facemmo un tentativo aprendo una porta
massiccia, dallaria pomposa, ed entrammo in unalta biblioteca
gotica, rivestita con dei pannelli di quercia inglese intagliata e, verosimilmente,
trasferita per intero da qualche rovina oltreoceano.
Un uomo robusto, di mezza età, con degli enormi occhiali che
lo facevano somigliare a un gufo, sedeva bevendo qualcosa a lato di
un enorme tavolo fissando, con instabile concentrazione, gli scaffali
ricolmi di libri. Quando entrammo si voltò verso di noi e contemplò
Jordan dalla testa ai piedi.
«Cosa ne pensate?» chiese con impeto.
«Di cosa?»
Agitò la mano verso gli scaffali.
«Di questa. È inutile che vi prendiate il fastidio di controllare.
Lho fatto io. Sono tutti veri.»
«I libri?»
Annuì.
«Assolutamente reali hanno le pagine e tutto il resto. Pensavo
fossero di un bel cartone resistente. Ma, neanche a dirlo, sono proprio
veri. Le pagine e
andiamo, vi faccio vedere.»
Dando per scontato il nostro scetticismo, corse verso la libreria
e tornò col volume primo delle Letture di Stoddard.
«Guardate!» urlò trionfante. «È autentica roba stampata. Mi ha
fregato. Questuomo è un vero Belasco. È un trionfo. Che accuratezza!
Che realismo! Sa benissimo quando fermarsi non ha tagliato
le pagine. Ma cosa volete? Cosa vi aspettate?»
Mi strappò di mano il libro e lo ripose con cura al suo posto
sullo scaffale, mormorando che se un solo mattone fosse stato rimosso,
lintera libreria sarebbe potuta crollare.
«Chi vi ci ha portato qui?» domandò. «O ci siete semplicemente
venuti? Io ci sono stato condotto. Molta gente ci viene condotta.»
Jordan lo guardò attentamente, in modo allegro, senza rispondergli.
Il Grande Gatsby
78
«Ci sono stato portato da una donna di nome Roosevelt,» continuò
lui, «la signora Claud Roosevelt. La conoscete? Io ho avuto il piacere
ieri sera, da qualche parte. Ero ubriaco da una settimana ed ho pensato
che stare seduto in una biblioteca mi avrebbe, forse, reso più sobrio.»
«Ci è riuscito?»
«Un pochino, penso. Non saprei che dire. Sono stato qui soltanto
unora. Vi ho parlato dei libri? Sono tutti veri. Sono
»
«Ce lha già detto.»
Gli stringemmo la mano, con aria grave, e tornammo fuori.
Ora si ballava sul palco in giardino, degli uomini anziani facevano
volteggiare allindietro le ragazze, in continui giri sgraziati, le
coppie più distinte si tenevano strette in maniera tortuosa, seguendo
la moda del momento e tenendosi ai lati, mentre tante ragazze
ballavano da sole, sollevando per un momento lorchestra dalla
preoccupazione di suonare il banjo o fare delle smorfie. A partire
dalla mezzanotte, lallegria era aumentata. Un noto tenore aveva
cantato in italiano, un celeberrimo contralto si era esibito col jazz e
la gente, tra unesibizione e laltra, sera prodotta in numeri per
tutto il giardino, mentre allegri e vacui scoppi di risa sinnalzavano
verso il cielo estivo. Una coppia di gemelle da palcoscenico che
poi si seppe erano le ragazze in giallo fecero una breve recita
infantile in costume e lo champagne fu servito in calici più grandi
delle ciotole lavadita. La luna aveva raggiunto il punto più alto e,
nello stretto, fluttuava un triangolo di scaglie argentee, un po tremolanti
per via del riverbero, duro e metallico, dei banjo sul prato.
Ero ancora con Jordan Baker. Eravamo seduti a un tavolo con
un uomo più o meno della mia età e una ragazzina piuttosto chiassosa
che ad ogni minimo pretesto scoppiava in una risata incontrollabile.
Ora gioivo per me stesso. Avevo bevuto un paio di ciotole
lavadita di champagne e la scena era cambiata, davanti ai miei
occhi, in qualcosa di significativo, basilare e profondo.
Capitolo Terzo
79
In una pausa dellintrattenimento, luomo mi guardò e sorrise.
«Il suo viso mi è familiare», disse educatamente. «Non era, per
caso, nella Terza Divisione durante la guerra?»
«Oh, si. Ero nel Nono Battaglione di Artiglieria.»
«Io sono stato nel Settimo Fanteria fino al giugno del 1918. Ero
certo di averti visto prima.»
Parlammo per un po dei villaggi francesi, umidi e grigi. Evidentemente
abitava nei paraggi, poiché mi disse che aveva preso da
poco un idrovolante e aveva intenzione di provarlo il mattino dopo.
«Non ti andrebbe di venire con me, vecchio mio? Vicino la costa,
lungo lo stretto.»
«A che ora?»
«Quando ti pare.»
Ero sul punto di chiedergli come si chiamasse quando Jordan si
guardò attorno e sorrise.
«Si sta divertendo, ora?» domandò.
«Molto di più.» Tornai a voltarmi verso la mia nuova conoscenza.
«Si tratta di una festa un po particolare per me
Non ho neanche
visto il padrone di casa. Abito oltre quella
» e mossi la mia
mano verso uninvisibile siepe in lontananza «e questo Gatsby, mi
ha mandato lo chauffeur con un invito.»
Per un istante mi guardò quasi come se non riuscisse a capire.
«Sono io Gatsby» disse improvvisamente.
«Cosa!» esclamai. «Oh, ti prego di perdonarmi.»
«Credevo lo sapessi, vecchio mio. Temo di non essere un buon
padrone di casa.»
Sorrise con aria comprensiva molto più che comprensiva. Era
uno di quei rari sorrisi dotati di uneterna rassicurazione, uno di
quelli in cui timbatti quattro o cinque volte al massimo nella vita.
Fronteggiava o almeno sembrava farlo lintero mondo esterno
per un istante, quindi si concentrava su di te con un irresistibile preIl
Grande Gatsby
80
giudizio a tuo favore. Ti comprendeva fin dove volevi essere compreso,
credeva in te proprio quanto avresti voluto farlo tu stesso e
ti rassicurava sul fatto di aver ricevuto da te esattamente limpressione
che volevi offrire, la migliore che avessi potuto sperare. Precisamente
a questo punto, svaniva ed io mi ritrovavo a osservare
un elegante e giovane proletario, di uno o due anni sopra i trenta,
la cui elaborata formalità nellesprimersi rasentava il ridicolo. Già
prima che si presentasse, avevo avuto limpressione che scegliesse
con cura le sue parole.
Quasi nello stesso momento in cui il signor Gatsby finiva di presentarsi,
un maggiordomo correva verso di lui per informarlo che
lo stavano chiamando, al telefono, da Chicago. Lui si scusò con un
leggero inchino, col quale intendeva includere tutti noi a turno.
«Qualsiasi cosa desiderassi, ti basterà chiederla, vecchio mio»,
mi sussurrò. «Scusatemi. Vi raggiungerò più tardi.»
Quando si allontanò, mi voltai immediatamente verso Jordan
costretto a renderla partecipe del mio stupore. Mi ero immaginato
il signor Gatsby come un uomo di mezza età, florido e corpulento.
«Chi è?» chiesi. «Lo conosce?»
«È solo un uomo che si chiama Gatsby.»
«Intendo dire, da dove viene? E cosa fa nella vita?»
«Ora è lei ad essere interessato al soggetto», mi rispose con un
pallido sorriso. «Bene, una volta mi disse che aveva studiato ad
Oxford.»
Uno sfondo confuso cominciava a prendere forma alle sue spalle,
ma il commento successivo fece ricalare le tenebre.
«Ad ogni modo, io non ci credo.»
«Perché no?»
«Non saprei,» continuò lei «ma non credo che ci sia stato.»
Qualcosa nel suo tono mi fece tornare alla mente il commento
dellaltra ragazza, Penso che abbia ucciso un uomo ed ebbe
Capitolo Terzo
81
leffetto di stimolare la mia curiosità. Avrei potuto accettare, senza
riserve, che Gatsby fosse venuto fuori dalle paludi della Louisiana
o dal Lower Est Side di New York. Sarebbe stato comprensibile.
Ma dei giovanotti, non potevano almeno nella mia inesperienza
provinciale credevo non potessero saltar fuori belli freschi dal
nulla e comprare un palazzo a Long Island.
«Comunque, dà delle grandi feste», disse Jordan cambiando argomento
con elegante disprezzo per le questioni concrete. «E io adoro le
grandi feste. Sono così intime. Nelle feste più piccole, non cè privacy.»
Ci fu un forte rullo di tamburi e la voce del direttore dorchestra
si levò, improvvisa, al di sopra dellecolalia del giardino.
«Signore e signori» urlò «su richiesta del signor Gatsby, eseguiremo
ora, per voi, lultimo brano di Vladimir Tostoff, che tanta
attenzione ha attirato al Carnegie Hall lo scorso primo maggio. Se
leggete i giornali, saprete che si tratta di un grande successo.» Rise
con gioviale condiscendenza e aggiunse «Un buon successo!» al
ché tutti risero.
«Il brano è conosciuto», concluse energicamente «come Jazz History
of the World di Vladimir Tostoff.»
La qualità della composizione di Tolstoff mi sfuggì poiché, non
appena la musica ebbe inizio, i miei occhi caddero su Gatsby che
se ne stava da solo sulle scale di marmo a guardare i vari gruppi,
ad uno ad uno, con aria dapprovazione. La pelle abbronzata e tesa
donava un aspetto attraente al suo volto mentre i capelli scuri davano
limpressione di essere curati ogni giorno. Per quanto mi sforzassi,
non riuscivo a scorgere nulla di misterioso in lui. Mi chiesi se
il fatto che non stesse bevendo, lo aiutasse a distinguersi dai suoi
ospiti, poiché mi sembrava che col crescere dellilarità generale, lui
assumesse un tono più composto. Quando la Jazz History of the
World fu terminata, alcune ragazze poggiavano la loro testa sulle
spalle degli uomini con aria gioviale, da cucciolo, altre si lasciavaIl
Grande Gatsby
82
no cadere scherzosamente tra le braccia di altri uomini, anche in
gruppi, sapendo che qualcuno avrebbe fermato la loro caduta ma
nessuna si lasciava cadere tra le braccia di Gatsby, nessun caschetto
francese poggiava sulla sua spalla e non si formò nessun quartetto,
con lui in testa per una strofa.
«Vi chiedo scusa.» Il maggiordomo di Gatsby ci si parò dinanzi
improvvisamente.
«Signorina Baker?» disse «le chiedo di perdonarmi, ma il signor
Gatsby vorrebbe parlare con lei, da sola.»
«Con me?» esclamò lei sorpresa.
«Si, madame.»
Si alzò lentamente, inarcando il sopracciglio verso me per lo stupore,
e seguì il maggiordomo in direzione della casa. Notai che indossava
il suo abito da sera, al pari di tutti i suoi vestiti, come fosse
un abito sportivo cera un allegro dinamismo nei suoi movimenti,
quasi avesse imparato a camminare sui campi da golf in mattine
limpide e frizzanti.
Ero solo ed erano quasi le due. Da un po di tempo si udivano
dei suoni confusi e intriganti provenire da una stanza lunga, con
diverse finestre, che si trovava al di sopra della terrazza. Evitando
lo studente che accompagnava Jordan, intento a discutere di ostetricia
con due ragazze del coro, implorandomi di unirmi a loro,
entrai in casa.
La stanza, molto grande, era gremita di gente. Una delle ragazze
in giallo ora stava suonando il piano e davanti a lei una signora
giovane e alta dai capelli rossi, di un famoso coro, si esibiva in una
canzone. Aveva bevuto una gran quantità di champagne e mentre
cantava doveva aver pensato, purtroppo, che tutto era davvero triste
non si limitava a cantare, piangeva anche. Ad ogni pausa della
canzone scoppiava in singhiozzi spezzati per poi riprendere a cantare
in soprano trillante. Le lacrime le scorrevano lungo le guance
Capitolo Terzo
83
non liberamente, però, poiché quando venivano a contatto con
le ciglia, assumevano un colore scuro, come inchiostro, e proseguivano
il resto della loro corsa in lenti rivoletti bluastri. Le venne
suggerito, in maniera scherzosa, di cantare le note che aveva sul
viso, al ché lei alzò le mani e sprofondò su una sedia, spegnendosi
in un sonno pesante, da vino.
«Ha litigato con un uomo che dice di essere suo marito», mi
spiegò una ragazza al mio fianco.
Mi guardai attorno. Molte delle donne rimaste, ora stavano litigando
con degli uomini che dicevano di essere i loro mariti. Anche
il gruppo di Jordan, il quartetto di Est Egg, si era diviso per dei
dissensi. Uno degli uomini stava parlando, con vivace intensità, a
una giovane attrice e sua moglie, dopo aver tentato di ridere della
situazione con aria dignitosa e indifferente, era crollata e aveva
deciso di sferrargli degli attacchi al fianco a tratti gli appariva
improvvisamente accanto e, come un diamante infiammato, gli sussurrava
allorecchio: «Sei impegnato!»
La riluttanza a tornare a casa non era soltanto dei ribelli. La sala
era, al momento, occupata da due uomini deplorabilmente sobri e
dalle rispettive mogli, vistosamente indignate. Le due donne stavano
simpatizzando tra loro con toni un po sovreccitati.
«Ogni volta che si accorge che mi sto divertendo, vuole tornare
a casa.»
«Non ho mai sentito nulla di più egoistico, in vita mia.»
«Siamo sempre i primi ad andar via.»
«Lo stesso vale per noi.»
«Beh, stasera siamo quasi gli ultimi», esordì timidamente uno
degli uomini. «Lorchestra è andata via da mezzora.»
Malgrado le mogli convenissero sullassurdità di tanta cattiveria,
la disputa finì dopo una breve lotta ed entrambe furono sollevate,
scalcianti, nella notte.
Il Grande Gatsby
84
Mentre aspettavo il mio cappello nellatrio, la porta della libreria
saprì e Jordan Baker e Gatsby uscirono insieme. Lui si stava accomiatando,
ma il suo entusiasmo si spense bruscamente, in mera formalità,
con larrivo di un gruppo di ospiti che intendevano salutarlo.
Gli amici di Jordan la stavano chiamando con impazienza dal
portico, ma lei sintrattenne ancora un po a stringere qualche mano.
«Ho appena ascoltato qualcosa di stupefacente», sussurrò. «Quanto
tempo siamo rimasti là dentro?»
«Beh
circa unora.»
«È stato
semplicemente sbalorditivo», ripeté in modo assorto.
«Ma ho giurato che non ne avrei fatto parola ed eccomi qui
a stuzzicarla.» Mi sbadigliò graziosamente in faccia. «Per favore,
venga a trovarmi
Elenco del telefono
a nome della signorina
Sigourney Howard
mia zia
.» Stava affrettandosi verso luscita
mentre continuava a parlare la sua mano abbronzata si produsse
in un allegro saluto, quindi si ricongiunse col suo gruppo di amici
allingresso.
Provando un po vergogna al pensiero di essere rimasto così,
fino a tardi, al mio primo invito, mi unii agli ultimi ospiti di Gatsby
che gli si raggruppavano intorno. Volevo spiegargli che lavevo
cercato prima, di sera, e scusarmi per non averlo riconosciuto in
giardino.
«Non dirlo neanche», mi rassicurò calorosamente. «Non pensarci
più, vecchio mio.» La sua espressione fu familiare quanto la mano
con la quale mi sfiorò affettuosamente la spalla. «E non dimenticare
che domani mattina, alle nove, proveremo lidrovolante.»
Poi il maggiordomo, alle sue spalle, disse:
«Philadelphia al telefono, signore.»
«Daccordo, giusto un minuto. Dì loro che arrivo subito
buona
notte.»
«Buona notte.»
Capitolo Terzo
85
«Buona notte.» Sorrise e dun tratto sembrò che lessere rimasto
fino a tardi, fosse stata una cortesia nei suoi confronti, quasi non
avesse desiderato altro. «Buona notte, vecchio mio
buona notte.»
Ma, mentre scendevo le scale, vidi che quella serata non era ancora
conclusa. A una cinquantina di piedi dal cancello, una dozzina
di torce illuminavano una scena bizzarra e tumultuosa.
Nel canale a lato della strada, rovesciata sulla fiancata sinistra
e con una ruota staccata di netto, cera una coupé nuova che sera
avviata per il viale di Gatsby giusto due minuti prima. Lacuminata
sporgenza di un muretto giustificava il distacco della ruota
che ora era divenuta oggetto dellattenzione di una mezza dozzina
di autisti curiosi. Ad ogni modo, siccome avevano lasciato le loro
auto a bloccare la strada, un frastuono roco e disarmonico si levava,
ormai, dalle vetture che seguivano, andandosi a sommare alla
violenta confusione della scena.
Un uomo con un lungo spolverino era sceso dal rottame e ora
se ne stava in piedi, in mezzo alla strada, a guardare dallauto alla
gomma e dalla gomma ai curiosi, con aria divertita e perplessa.
«Guardate!» esclamò. «Sono finito nel fosso.»
Il fatto per lui era incredibilmente strano ed io misi a fuoco
prima la particolare qualità dello stupore, quindi lo riconobbi era
lestimatore della biblioteca di Gatsby.
«Comè potuto accadere?»
Scrollò le sue spalle.
«Non ci capisco nulla di meccanica», disse con decisione.
«Ma comè potuto succedere? Ha sbattuto contro il muro?»
«Non lo chieda a me», disse Occhi-di-Gufo lavandosene le mani
dellintera faccenda. «Non ho molta pratica alla guida anzi non
ne ho proprio. È successo e questo è tutto ciò che so.»
«Beh, se non se la cava alla guida, non dovrebbe rischiare a guidare
di notte.»
Il Grande Gatsby
86
«Ma non ci ho neanche provato» spiegò indignato «non ci stavo
proprio provando.»
Un silenzio angosciante calò sugli astanti.
«Intende suicidarsi?»
«È stato fortunato che sia saltata soltanto una ruota! Un pessimo
autista, non dovrebbe neanche provarci a guidare!»
«Lei non ha capito», spiegò il criminale. «Io non stavo guidando.
Cera un altro uomo in macchina.»
Lo shock che seguì questa dichiarazione trovò voce in un fragoroso
Ah-h-h! quando la porta della coupè si aprì lentamente.
La folla poiché ormai si era formata una folla fece un passo
indietro involontariamente e, quando la porta fu completamente
aperta, ci fu una calma spettrale. Poi, molto lentamente, a poco
a poco, un individuo pallido venne fuori dal rottame, tastando
timorosamente il terreno con una grande scarpa che ciondolava
incerta.
Accecata dal bagliore delle torce e confusa dallincessante frastuono
dei clacson, lapparizione stentò in piedi, barcollando per
qualche istante, prima di scorgere luomo con lo spolverino.
«Qual è il problema?» chiese con fare calmo. «Abbiamo finito la
benzina?»
«Guarda!»
Una mezza dozzina di dita indicarono la ruota distaccata lui
la fissò per un momento, poi guardò in alto quasi sospettasse che
fosse potuta cadere dal cielo.
«Se nè venuta via», gli spiegò qualcuno.
Lui annuì.
«Non mi sono accorto subito che ci fossimo fermati.»
Una pausa. Poi, prendendo un gran respiro e raddrizzando le
spalle, disse con voce decisa:
«Voialtri sapete dirmi dove si trova una stazione di servizio?»
Capitolo Terzo
87
Alla fine una dozzina di uomini, alcuni dei quali in condizioni
appena migliori delle sue, gli spiegarono che la ruota e la macchina
non erano più fisicamente unite.
«Tiratela fuori», suggerì un istante dopo. «Mettetela in retromarcia.
»
«Ma manca una ruota!»
Lui esitò.
«Tentar non nuoce», disse lui.
Il lamento dei clacson era ormai un crescendo, io mi voltai e
tagliai per il prato verso casa. Guardai ancora una volta indietro.
Unostia di luna splendeva sulla casa di Gatsby, rendendo la notte
bella come prima, e resisteva alle risate e al frastuono del suo giardino
ancora illuminato. Un vuoto improvviso sembrava ora provenire
dalle finestre e dalle grandi porte avvolgendo, in un completo isolamento,
la figura del padrone di casa che se ne stava in piedi sotto al
portico con le braccia alzate in un gesto formale di commiato.
Rileggendo ciò che scrissi allora, noto di aver dato limpressione
di essere stato completamente assorbito dagli eventi di tre notti
distanti alcune settimane luna dallaltra. Al contrario, si trattò di
eventi del tutto casuali in unestate intensa che, per molto tempo,
mi assorbirono infinitamente meno delle mie questioni personali.
La maggior parte del tempo la trascorrevo lavorando. La mattina
presto il sole proiettava la mia ombra verso ovest, mentre correvo
giù nellabisso bianco della bassa New York, al Probity Trust.
Conoscevo di nome gli altri impiegati e i giovani agenti di borsa e
pranzavo con loro, in oscuri e gremiti ristoranti, mangiando piccole
salsicce di maiale, purè di patate e bevendo caffè. Ebbi anche una
breve storia con una ragazza che viveva a Jersey City e lavorava in
amministrazione, ma poi suo fratello cominciò a guardarmi di traverso
e così, quando lei partì per le vacanze, a Luglio, pensai bene
di lasciar perdere la faccenda.
Il Grande Gatsby
88
Cenavo abitualmente al Yale Club per qualche ragione era
levento più cupo della mia giornata dopodiché me ne salivo in
libreria a studiare per ore, coscienziosamente, investimenti e assicurazioni.
Cerano in giro, abitualmente, dei nullafacenti, ma si
tenevano lontani dalla biblioteca, cosicché era un ottimo posto per
lavorare. A seguire, se la serata era tiepida, passeggiavo per Madison
Avenue fino al vecchio Hill Murray Hotel e poi sulla Trentreesima
verso la Pennsylvania Station.
Cominciai ad apprezzare New York, latmosfera vivace e avventurosa
della notte e la soddisfazione che locchio irrequieto provava nel
contemplare il continuo fluire di uomini, donne e vetture. Mi piaceva
risalire la Quinta Avenue scegliendo, tra la folla, donne romantiche
e immaginare che in pochi minuti sarei potuto entrare nelle loro vite
senza che nessuno potesse saperlo o disapprovare. Qualche volta,
nella mia mente, le seguivo nei loro appartamenti agli angoli delle
strade più nascoste e loro si voltavano, sorridenti, verso me prima
di sfumare, attraverso una porta, nella calda oscurità. Nellincantevole
tramonto sulla metropoli, provavo una lancinante solitudine, la
sentivo anche negli altri giovani e poveri impiegati che si attardavano
fuori le vetrate dei ristoranti aspettando che giungesse lora per
consumare una cena solitaria giovani impiegati al crepuscolo, che
sprecavano i momenti più significativi della notte e della vita.
Di nuovo le otto, quando le strade scure verso la quarantesima
erano piene zeppe di taxi frementi diretti verso il distretto dei teatri,
sentivo una fitta al cuore. Figure si stringevano nei taxi durante
le soste, voci cantavano, giungevano risate per battute non udite
e luci di sigarette abbozzavano gesti indecifrabili allinterno delle
vetture. Immaginando di correre io stesso verso lallegria, condividendo
la loro eccitazione, auguravo a tutti il meglio.
Per un po persi di vista Jordan Baker, poi verso la metà dellestate
la ritrovai. In un primo momento fui lusingato di andare in
Capitolo Terzo
89
giro con lei, poiché era una campionessa di golf e tutti conoscevano
il suo nome. Poi ci fu qualcosa di più. Non ero esattamente innamorato,
ma provavo una sorta di tenera curiosità. Lespressione
annoiata che riservava al mondo, nascondeva qualcosa la maggior
parte delle pose nascondono qualcosa, benché spesso non da subito
ed un giorno scoprii di cosa si trattava. Quando andammo
a una festa su a Warwick, lasciò la vettura a noleggio con la capote
calata, sotto la pioggia, e poi mentì a riguardo subito mi tornò
alla mente la storia su di lei che mera sfuggita quella sera da Daisy.
Durante il suo primo torneo di golf ci fu una lite che presto finì sui
giornali un sospetto sul fatto che avesse spostato la pallina, da
una brutta posizione, durante la semifinale. La faccenda assunse
velocemente le dimensioni di uno scandalo, poi scemò. Un caddy
ritirò la sua testimonianza e lunico altro testimone oculare ammise
che poteva essersi sbagliato. Lepisodio e il nome mi erano rimasti
entrambi impressi.
Jordan Baker evitava istintivamente gli uomini intelligenti e furbi
e ora capivo che ciò dipendeva dal fatto che si sentiva più al
sicuro in un ambito nel quale qualsiasi infrazione al codice fosse
ritenuta impossibile. Era incurabilmente disonesta. Non riusciva a
sopportare lidea di essere in svantaggio e, data questa incapacità,
suppongo che avesse iniziato fin da giovanissima a utilizzare i vari
sotterfugi per continuare ad ostentare quel sorriso fantastico ed
insolente, rivolto al mondo intero, e allo stesso tempo soddisfare i
bisogni di quel corpo così disinvolto.
Per me non faceva alcuna differenza. La disonestà in una donna
è qualcosa che non si biasima mai troppo me ne dispiacqui per
un po, poi me ne dimenticai. Fu alla stessa festa che avemmo una
singolare discussione sulla guida dellautomobile. Lo spunto fu il
suo passaggio troppo ravvicinato ad alcuni operai, al punto che il
nostro parafango strappò via un bottone dalla giacca di uno di loro.
Il Grande Gatsby
90
«Sei una pessima guidatrice» protestai. «Dovresti stare più attenta
o evitare di guidare.»
«Sono attenta.»
«No, non lo sei.»
«Beh, lo sono gli altri», disse con sufficienza.
«Questo che centra?»
«Si terranno alla larga», insisté. «Si deve essere in due per fare
un incidente.»
«Supponendo che incontri qualcuno sbadato quanto te?»
«Spero non succeda mai», rispose. «Detesto la gente sbadata. È
per questo che tu mi piaci.»
I suoi occhi grigi, striati dal sole, fissavano lorizzonte, ma aveva
deliberatamente cambiato la nostra relazione e per un momento
credetti di amarla. Però, io rifletto molto lentamente e in me ci
sono tanti condizionamenti interni che agiscono come freni sui
desideri; compresi che, per cominciare, dovevo sfilarmi definitivamente
da quel groviglio e tornarmene a casa. Le avevo scritto una
lettera a settimana firmandomi: Con affetto, Nick e tutto quello
che riuscivo a pensare di lei era che, quando giocava a tennis, le si
formava un esile baffetto di sudore sul labbro superiore. Ciononostante
esisteva un vago impegno che doveva essere cautamente
troncato, prima che potessi ritenermi libero.
Ciascuno di noi si suppone dotato di almeno una delle virtù cardinali,
e questa è la mia: sono una delle poche persone oneste che
abbia mai conosciuto.
91
La domenica mattina, mentre le campane delle chiese rintoccavano
nei borghi lungo la costa, il mondo e la sua amante tornavano
a casa di Gatsby e ammiccavano con ilarità sul prato.
«È un contrabbandiere», dicevano le ragazze muovendosi tra i cocktail
e i fiori. «Un tempo uccise un uomo che aveva scoperto che era il nipote
di von Hindenburg e cugino in seconda del diavolo. Passami una
rosa, amore, e versami unultima goccia in quella coppa di cristallo.»
Una volta scrissi, su uno spazio vuoto dellorario dei treni, i nomi
degli ospiti di Gatsby di quellestate. Ora è un vecchio pieghevole
che si sbriciola lungo i lati con lintestazione Orario in vigore dal
5 Luglio del 1922. Ma riesco ancora a leggere i nomi ingrigiti, che
vi daranno unimpressione più netta di quanto non potrebbero le
mie descrizioni generiche, di coloro che accettarono lospitalità di
Gatsby e gli offrirono il sottile omaggio di non saper nulla di lui.
Dunque: da Est Egg venivano Chester Baker e consorte, i Leech
e un uomo di nome Bunsen, che conoscevo da Yale, nonché
il dottor Webster Civet che è affogato lestate scorsa nel Maine.
Poi gli Hornbeams, Willie Voltaire e consorte e un intero clan, i
Blackbuck, i quali si ritiravano sempre in un angolo e puntavano
il naso allinsù come le capre quando gli si avvicinava qualcuno.
Quindi gli Ismay, i Chrystie (o per meglio dire Hubert Auerbach e
la moglie di Chrystie) ed Edgar Beaver, i cui capelli si dice diven-
Capitolo Quarto
Il Grande Gatsby
92
nero bianchi come il cotone improvvisamente in un pomeriggio
dinverno senza alcuna ragione.
Clarence Endive veniva da Est Egg, se ricordo bene. Venne una
sola volta, con dei pantaloni bianchi alla zuava, e litigò con un barbone
di nome Etty, in giardino. Da zone più lontane dellisola venivano
i Cheadle, gli Schraeder, gli Stonewall Jackson della Georgia,
i Fishguard e i Ripley Snell. Snell rimase per tre giorni prima di finire
in penitenziario, così ubriaco sul vialetto di ghiaia che lauto della
signora Ulysses Swett gli passò sulla mano destra. I Dancie anche
e i Whitebait, che era ben oltre i sessanta, e Maurice A. Flink, gli
Hammerhead e Beluga, limportatore di tabacco con le figlie.
Da West Egg venivano i Pole e i Mulready, Cecil Roebuc e Cecil
Schoen, Gulik il senatore e Newton Orchid, tra i proprietari della Film
Par Excellence, Eckhaust e Clyde Cohen, Don S. Schwartze (il figlio) e
Arthur McCarty, tutti nel giro del cinema in un modo o nellaltro. Poi i
Catlip e i Bemberg, G. Earl Muldoon, fratello di quel Muldoon che poi
avrebbe strangolato la moglie. Da Fontano lorganizzatore, Ed Legros
e James B. (Rot-Gut) Ferret e i De Jongs, Ernest Lilly loro venivano
per il gioco dazzardo e quando Ferret passeggiava in giardino, stava
a significare che lavevano ripulito e le azioni dellAssociated Traction
avrebbero avuto delle oscillazioni interessanti il giorno successivo.
Un uomo di nome Klipspringer veniva così spesso e tanto a lungo
che fu ribattezzato il pensionante - dubito che avesse unaltra
casa. Del mondo del teatro cerano Gus Waize e Horace ODonavan,
Lester Myer, George Duckweed e Francis Bull. Sempre da
New York venivano i Chrome e i Backhyssons, i Dennicker e Russel
Betty, i Corrigan e Kelleher, i Dewar, gli Scully, i Belcher, gli Smirke
e il giovane Quinns, appena divorziato, Henry Palmetto che si
uccise gettandosi sui binari della metropolitana in Times Square.
Benny McClenahan veniva sempre con quattro ragazze. Non erano
mai le stesse, ma si somigliano tanto che inevitabilmente sembrava
Capitolo Quarto
93
di averle viste prima. Ho dimenticato i loro nomi Jaqueline, penso,
o anche Consuela, o Gloria o Judy o June, e i loro cognomi erano altrettanto
melodiosi nomi di fiori e mesi mentre altri erano più austeri,
di grandi capitalisti americani dei quali, se forzate, confessavano di
essere cugine.
Oltre tutti questi, ricordo che Faustina OBrien venne almeno
una volta, le figlie di Baedeker e il giovane Brewer, che aveva avuto
mutilato il naso in guerra, il signor Albrucksburger e la signorina
Haag, sua fidanzata, Ardita Fitz-Peter e il signor P. Jewett, un
tempo a capo della Legione Americana, la signorina Claudia Hip
con un uomo che si credeva fosse il suo autista, e un principe di
qualcosa che noi chiamavamo Duca e il cui nome, se mai lo seppi,
lho dimenticato.
Tutta questa gente era ospite di Gatsby, quellestate.
Alle nove di una mattina di fine luglio, la meravigliosa auto di
Gatsby avanzò sobbalzando sul vialetto di ghiaia che portava al
mio cancello, annunciandosi con una fragorosa melodia del clacson
a tre toni. Era la prima volta che mi faceva visita, benché avessi
già preso parte a due sue feste, fossi salito sul suo idrovolante e, su
suo pressante invito, avessi utilizzato più volte la sua spiaggia.
«Buongiorno, vecchio mio. Pranzeremo insieme oggi e ho pensato
di passarti a prendere.»
Si dondolava sul predellino dellauto con quellelasticità dei movimenti
così tipica degli americani che deriva, suppongo, dal non
dover affrontare lavori pesanti o dal non restare a lungo seduti in
gioventù, ma anche dalla grazia informe dei nostri giochi, sporadici
e nervosi. Questa peculiarità veniva fuori, ogni momento, attraverso
la sua scrupolosa attitudine allirrequietezza fisica. Non stava
mai fermo; cera sempre un piede che tamburellava o una mano
insofferente che si apriva e chiudeva.
Il Grande Gatsby
94
Vide che guardavo con ammirazione la sua auto.
«È bella, non è vero, vecchio mio?» Saltò giù per offrirmi uno
scorcio migliore. «Non lavevi mai vista prima?»
Lavevo vista. Tutti lavevano vista. Era di un intenso color crema,
lucente di cromature, sinuosa qua e là nella sua esagerata lunghezza,
con un trionfo di vani per i cappelli, per le provviste e per
gli attrezzi e coperta da un labirinto di parabrezza che rispecchiavano
una dozzina di soli. Seduti là davanti, oltre diversi strati di
vetro, in una specie di serra di cuoio verde, partimmo per la città.
Avevo parlato con lui allincirca una mezza dozzina di volte,
nellultimo mese, e avevo riscontrato con delusione che non aveva
poi molto da dire. Così la mia prima impressione, che si trattasse di
una persona di una certa importanza, era progressivamente sfumata
facendolo diventare semplicemente il proprietario di una vistosa
villa di fianco al mio cottage.
Poi fu la volta di quella sconcertante gita. Non eravamo ancora
giunti a West Egg, che Gatsby già cominciava a lasciare le sue dotte
frasi a metà e a tamburellare, titubante, sul ginocchio del suo abito
color caramello.
«Di un po, vecchio mio», se ne uscì allimprovviso. «Cosa pensi
di me?»
Preso un po alla sprovvista, risposi con le solite formule evasive,
riservate a domande del genere.
«Beh, ti racconterò qualcosa della mia vita», minterruppe.
«Non vorrei che ti facessi una cattiva idea di me in base a tutte le
storie che hai sentito.»
Quindi era al corrente delle accuse bizzarre che davano sapore
alle conversazioni nei saloni di casa sua.
«Ti dirò la verità, al cospetto di Dio.» La sua mano destra, prontamente,
ordinò al giudizio divino di attendere. «Sono figlio di gente
piuttosto benestante del Middle West, tutti morti ormai. Sono
Capitolo Quarto
95
cresciuto in America ma ho studiato a Oxford poiché tutti i miei
avi hanno sempre studiato lì. È una tradizione di famiglia.»
Mi guardò con la coda degli occhi ed io capii perché Jordan
Baker credesse che mentiva. Aveva accelerato sulla frase «ho studiato
a Oxford» - si mangiava le parole o inciampava su di esse
- come se già prima gli avessero dato noie. E, con questo dubbio,
tutta la sua dichiarazione cadeva in frantumi lasciandomi nel dubbio
che in lui potesse esserci qualcosa di misterioso, dopo tutto.
«Quale zona del Middle West?» chiesi casualmente.
«San Francisco.»
«Capisco.»
«I miei sono tutti morti, ho ereditato una montagna di soldi.»
La sua voce era grave, come se il ricordo di quella prematura
scomparsa lo tormentasse ancora. Per un attimo sospettai mi stesse
prendendo in giro, ma riosservandolo mi convinsi del contrario.
«In seguito ho vissuto come un giovane rajah in tutte le capitali
dEuropa Parigi, Venezia, Roma collezionando gioielli, principalmente
rubini, partecipando a grandi battute di caccia, dipingendo
un po, roba così soltanto per mio diletto, e cercando di dimenticare
qualcosa di molto triste che mera capitato diverso tempo prima.»
Dovetti sforzarmi per controllare una risata incredula. Tutto questo
racconto appariva così banale e stereotipato da non evocare altro
che limmagine di un burattino col turbante che perdeva segatura da
ogni poro mentre continuava a inseguire la tigre nel Bois de Boulogne.
«Poi arrivò la guerra, vecchio mio. Fu un grande sollievo, provai
a morire in ogni modo, ma sembrava che su di me ci fosse un incantesimo.
Accettai la nomina a tenente, quando scoppiò. Nella foresta
delle Argonne condussi quel che restava del mio battaglione di
artiglieria così avanti, che avevamo mezzo miglio scoperto su ciascun
fianco dove la fanteria non poteva avanzare. Restammo lì per
due giorni e due notti, centotrenta uomini con sedici mitragliatrici
Il Grande Gatsby
96
Lewis e, quando alla fine ci raggiunse la fanteria, trovò le insegne di
tre divisioni tedesche tra le pile di morti. Fui promosso maggiore e
ciascun governo Alleato mi diede una decorazione anche il Montenegro,
il piccolo Montenegro che affaccia sullAdriatico.»
Il piccolo Montenegro! Scandì bene le parole, annuendo con un
sorriso. Il sorriso racchiudeva la tribolata storia del Montenegro e
la solidarietà alla coraggiosa lotta del suo popolo. Apprezzava in
pieno la serie di avvenimenti nazionali che avevano suscitato quel
tributo dal piccolo cuore caldo del Montenegro. La mia incredulità,
ora, era repressa dal fascino della narrazione; era come sfogliare,
a folle velocità, una dozzina di riviste illustrate.
Cercò qualcosa in una tasca, quindi mi fece scivolare tra le mani
un pezzo di metallo, legato ad un nastro.
«Questa è quella del Montenegro.»
Con mio stupore, loggetto aveva unaria autentica.
Orderi di Danilo, recitava la leggenda circolare, Montenegro Nicolas Rex.
«Voltala.»
Maggiore Jay Gatsby, lessi. Per Straordinario Valore.
«Cè unaltra cosa che mi porto sempre dietro. Un ricordo dei
tempi di Oxford. È stata scattata a Trinity Quad luomo alla mia
sinistra ora è il Conte di Doncaster.»
Si trattava di una fotografia con una dozzina di ragazzi in blazer
sotto un arco attraverso cui si scorgevano un gran numero di
guglie. Cera Gatsby, sembrava un po più giovane, ma non tanto
con una mazza da cricket in mano.
Quindi era tutto vero. Vidi le pelli di tigre fiammeggiare nel suo palazzo
sul Gran Canale; lo vidi aprire uno scrigno pieno di rubini per alleviare,
con la loro intensa luce cremisi, le pene del suo cuore infranto.
«Ti chiederò un grosso favore, oggi», disse riponendo in tasca i
suoi souvenir con soddisfazione, «per questo pensavo fosse necessario
sapessi qualcosa in più su di me. Non volevo mi credessi uno
Capitolo Quarto
97
qualunque. Vedi, mi circondo di sconosciuti perché vado alla deriva
cercando di dimenticare quanto di triste mi è accaduto.» Esitò.
«Ne saprai di più nel pomeriggio.»
«A pranzo?»
«No, nel pomeriggio. Ho saputo che porterai la signorina Baker
fuori per il tè.»
«Vuoi dire che sei innamorato della signorina Baker?»
«No, vecchio mio, no. Ma la signorina Baker si è gentilmente
offerta di parlarti di questa faccenda.»
Non avevo la più pallida idea di cosa fosse questa faccenda,
ma ero più seccato che interessato. Non avevo invitato Jordan per
il tè per ritrovarmi poi a discutere del signor Gatsby. Ero convinto
che la richiesta fosse qualcosa di assolutamente stravagante e per
un istante mi pentii di aver messo piede su quel prato sovraffollato.
Non aveva intenzione di dire una parola di più. La sua correttezza
crebbe mentre ci avvicinavamo alla città. Superammo Port Roosevelt,
dove sintravedevano le navi dalto mare orlate di rosso, e corremmo
giù lungo lacciottolato dei bassifondi contornato da bettole buie ed
abbandonate con le insegne sbiadite dei primi del Novecento. Poi la
valle delle ceneri ci si aprì attorno e scorsi il signor Wilson che si sforzava
alla pompa del garage, con ansante vitalità, mentre avanzavamo.
Con i parafanghi distesi come ali, spargemmo luce per mezza
Astoria soltanto metà, poiché mentre danzavamo tra i pilastri della
sopraelevata, udimmo il familiare borbottio di una motocicletta
e un poliziotto, tutto ansimante, ci si affiancò.
«Nessun problema, vecchio mio», disse Gatsby. Rallentammo.
Prese un cartoncino bianco dal portafogli e lo sventolò davanti agli
occhi delluomo.
«Tutto ok», dichiarò il poliziotto toccandosi il cappello. «La
prossima volta la riconoscerò, signor Gatsby. Mi scusi!»
«Cosera?» gli chiesi. «La foto di Oxford?»
Il Grande Gatsby
98
«Una volta feci un favore al loro capo e da allora, ogni anno, mi
manda una cartolina con gli auguri di Natale.»
Attraversammo il grandioso ponte col tramonto che sinsinuava
tra i tralicci creando uno scintillio continuo sulle auto in corsa, la
città che sorgeva al di là del fiume in cumuli bianchi e zollette di
zucchero, costruita con lambizione del denaro che non ha odore.
La città, vista dal Queensboro Bridge, appare sempre come se la si
guardasse per la prima volta, nel suo primordiale anelito al mistero
e alla bellezza del mondo.
Un morto ci superò in un carro funebre ricolmo di fiori, seguito
da due auto con le tendine scure e da altre due più allegre per gli
amici. Questi ci guardarono con occhi da tragedia e le labbra sottili
degli europei del sud-est ed io fui felice che la vista della meravigliosa
auto di Gatsby fosse inclusa in quella loro cupa vacanza. Nellattraversare
Blackwell Island fummo sorpassati da una limousine,
guidata da uno chauffeur bianco, con a bordo tre uomini di colore
vestiti alla moda, due maschi e una femmina. Scoppiai a ridere
quando il bianco dei loro occhi roteò verso di noi con altera rivalità.
Qualsiasi cosa può accadere, ora che abbiamo attraversato questo
ponte, pensai. qualsiasi cosa
Perfino Gatsby poteva capitare, senza che ciò creasse particolare
stupore.
Mezzogiorno ruggente. In una cantina ben ventilata della Quarantaduesima
strada, rincontrai Gatsby per il pranzo. Sbattendo le
ciglia per stemperare il bagliore della strada, lo intravidi a malapena
nellantisala mentre parlava con un tizio.
«Signor Carraway, questo è il mio amico Wolfshiem.»
Un piccolo ebreo, dal naso schiacciato, sollevò la sua grossa testa
per guardarmi con due bei ciuffi di peli nelle narici. Dopo qualche
istante distinsi i suoi piccoli occhi nella penombra.
Capitolo Quarto
99
«
così gli diedi unocchiata
» disse Wolfshiem, stringendomi
la mano vigorosamente, «
e cosa credi che feci?»
«Cosa?» chiesi garbatamente
Ma evidentemente non sera rivolto a me, poiché mi lasciò la
mano e puntò il suo naso espressivo su Gatsby.
«Diedi il denaro a Katspaugh e gli dissi Va bene, Katspaugh, non
dargli un solo centesimo finché non chiude la bocca. La chiuse subito.»
Gatsby ci prese entrambi sottobraccio inoltrandosi nel ristorante,
allora Wolfshiem si ricacciò in gola una frase che stava per pronunciare
e cadde in unapatia sonnambulica.
«Cocktail?» chiese il capo cameriere.
«Questo è davvero un bel ristorante», disse Wolfshiem guardando
le ninfe presbiteriane sul soffitto. «Ma preferisco quello di fronte!»
«Si, vada per un cocktail», convenne Gatsby, e poi rivolto a Wolfshiem:
«Fa troppo caldo di là.»
«Caldo e piccolo è vero,» rispose Wolfshiem, «ma pieno di ricordi.»
«Di che posto si tratta?» chiesi.
«Il vecchio Metropole.»
«Il vecchio Metropole», mormorò Wolfshiem mestamente. «Pieno
di facce morte e sepolte. Pieno di amici andati via per sempre. Non
dimenticherò mai la notte che spararono a Rosy Rosenthal. Eravamo
in sei a tavola e Rosy aveva stramangiato e strabevuto per tutta
la sera. Quando ormai era quasi lalba, il cameriere lo raggiunse con
una strana espressione e gli disse che qualcuno voleva parlargli, fuori.
Va bene, disse Rosy e fece per alzarsi, ma io lo tirai giù sulla sedia.
Lascia che siano quei bastardi a venire dentro, se ti vogliono, Rosy, ma
tu, dammi ascolto, non muoverti di qui. Erano le quattro del mattino e
socchiudendo le persiane avremmo potuto vedere la luce dellalba.»
«Non ci andò?» chiesi con aria innocente.
«Certo che candò», il naso di Wolfshiem guizzò verso me con
indignazione. «Si voltò sulla porta e disse Bada che il cameriere
Il Grande Gatsby
100
non mi porti via il caffé! Poi uscì sul marciapiedi, gli spararono tre
colpi in pieno petto e se ne andarono.»
«Quattro di loro finirono sulla sedia elettrica», dissi ricordando.
«Cinque con Becker.» Le sue narici di voltarono verso me con interesse.
«Mi pare daver capito che sta cercando qualche buon affare.»
Il contrasto tra le due frasi fu allarmante. Gatsby rispose per me:
«Oh no, non è lui luomo!»
«No?» Wolfshiem sembrò deluso.
«Lui è solo un amico. Tavevo detto che ne avremmo parlato in
unaltra occasione.»
«Vi chiedo perdono, ho sbagliato uomo.»
Fu servito un invitante spezzatino e Wolfshiem, dimenticando la
più sentimentale atmosfera del vecchio Metropol, iniziò a mangiare
con feroce delicatezza. I suoi occhi, nel frattempo, esploravano molto
lentamente tutta la sala completava il giro voltandosi per osservare
la gente che gli stava di spalle. Sono convinto che, se non fossi stato
presente, avrebbe gettato una rapida occhiata anche sotto il tavolo.
«Sta a sentire, vecchio mio» disse Gatsby chinandosi verso me
«temo di averti fatto un piccolo sgarbo stamattina, in macchina.»
Ci fu di nuovo quel suo sorriso, ma questa volta gli resistetti.
«Non mi piacciono i misteri», risposi. «E francamente non capisco
per quale motivo tu non mi debba dire cosa vuoi. Perché devo
saperlo dalla signorina Baker?»
«Oh, non cè nessun mistero» mi rassicurò. «La signorina Baker
è una grande sportiva, lo sai, e non farebbe mai nulla che non fosse
assolutamente corretto.»
Improvvisamente guardò lorologio, saltò in piedi e corse fuori
lasciando me e Wolfshiem a tavola.
«Deve telefonare», disse Wolfshiem seguendolo con gli occhi.
«Granduomo, non crede? Di bellaspetto, un perfetto gentiluomo.»
«Certo.»
Capitolo Quarto
101
«Sè formato ad Oggsford.»
«Oh!»
«Ha frequentato il college di Oggsford, in Inghilterra. Lei conosce
il college di Oggsford?»
«Ne ho sentito parlare.»
«Si tratta di uno dei più famosi college al mondo.»
«Conosce Gatsby da molto?» chiesi.
«Diversi anni», rispose compiaciuto. «Ho avuto il piacere dincontrarlo
appena dopo la guerra. Capii dessermi imbattuto in un
uomo di gran classe appena unora dopo. Mi dissi: Questo è il
tipo di uomo che avresti il piacere di presentare a tua madre e a
tua sorella.» Fece una pausa. «Ho notato che sta guardando i miei
gemelli.»
Non li stavo guardando, ma lo feci in quel momento. Erano composti,
in pratica, da due pezzi davorio stranamente familiari.
«Magnifici esemplari di molari umani», minformò.
«Però!» li osservai con attenzione. «È davvero unidea interessante.»
«Ben detto.» Tirò i polsini sotto la giacca. «Si, Gatsby è molto prudente
con le donne. Non guarderebbe neanche la moglie di un amico.»
Quando il soggetto di questa fiducia istintiva tornò a tavola e
sedette, Wolfshiem tracannò il suo caffè e salzò.
«Un pranzo delizioso», disse «e ora mi allontano da voi due, giovanotti,
prima che diventi noioso.»
«Non preoccuparti, Meyer», rispose Gatsby con poco entusiasmo.
Wolfshiem alzò le sue mani in una sorta di benedizione.
«Sei molto gentile, ma io appartengo a unaltra generazione», disse
solenne. «Restate qui a discutere dei vostri sport, di ragazze e
» colmò
il vuoto di quella parola immaginaria con un cenno della mano «quanto
a me, ho cinquantanni e non voglio imporvi oltre la mia presenza.»
Mentre agitava le mani e si voltava, il suo naso da tragedia tremava.
Mi domandai se non avessi detto qualcosa che avesse potuto offenderlo.
Il Grande Gatsby
102
«Alle volte diventa davvero patetico», mi spiegò Gatsby. «Oggi
è uno dei suoi giorni patetici. È un personaggio a New York un
animale di Broadway.»
«Che fa nella vita
è un attore?»
«No.»
«Un dentista?»
«Meyer Wolfshiem? No, è un giocatore dazzardo.» Esitò, poi
aggiunse freddamente: «È lui luomo che truccò la World Series
nel 1919.»
«Truccò la Worlds Series?» ripetei.
Lidea mi scosse. Ricordavo, ovviamente, che la Worlds Series
era stata truccata nel 1919, ma ho sempre pensato a quella vicenda
come a qualcosa di semplicemente accaduto, lesito di uninevitabile
sequenza di eventi. Non avevo mai preso in considerazione
lidea che un uomo potesse prendersi gioco della buona fede di
cinquanta milioni di persone
con la stessa determinazione di un
ladro che fa saltare una cassaforte.
«Come ha fatto?» chiesi dopo un po.
«Aveva intuito la possibilità.»
«E come mai non è in carcere?»
«Non sono riusciti a condannarlo, vecchio mio. È un uomo molto
furbo.»
Insistei per pagare il conto. Mentre il cameriere mi consegnava il
resto, notai Tom Buchanan dallaltro lato della sala gremita.
«Seguimi», dissi. «Devo salutare una persona.»
Quando ci vide, Tom saltò in piedi e si diresse verso di noi.
«Dove sei finito?» domandò con impazienza. «Daisy è furiosa
perché non ti sei più fatto vivo.»
«Il signor Gatsby, il signor Buchanan.»
Si diedero una rapida e tesa stretta di mano, poi un innaturale
accenno dimbarazzo comparve sul volto di Gatsby.
Capitolo Quarto
103
«Cosa hai fatto, ad ogni modo?» mi chiese Tom. «Come mai ti
sei spinto così lontano per pranzare?»
«Ho pranzato col signor Gatsby.»
Mi voltai verso Gatsby, ma era sparito.
«Un giorno di ottobre del 1917», prese a raccontarmi Jordan
Baker quel pomeriggio, sedendo molto rigida su di una sedia dallo
schienale dritto nel giardino da tè dellHotel Plaza, «stavo passeggiando
per fatti miei un po sui marciapiedi ed un po sui prati. Mi
trovavo meglio sullerba poiché calzavo delle scarpe inglesi con dei
tacchetti di gomma nelle suole che addentavano la terra soffice.
Indossavo una gonna nuova in tessuto scozzese che si gonfiava a
tratti al vento e, quando succedeva, le bandiere rosse, bianche e blu
che sventolavano davanti alle case si tesavano e prorompevano in
un TUT-TUT-TUT-TUT di disapprovazione.
La bandiera e il prato più grandi si trovavano davanti casa di
Daisy Fay. Era appena diciottenne, due anni più grande di me, ed
era, senza dubbio, la ragazza più popolare di Louisville. Vestiva di
bianco, aveva una piccola cabriolet bianca ed il telefono squillava
tutto il giorno in casa sua, con i giovani ufficiali del Camp Taylor
che, eccitati, chiedevano il privilegio di monopolizzarla per una
sera, o almeno per unora!
Quel mattino, quando passai di fronte casa sua, la cabriolet
bianca era accostata al marciapiede, lei sedeva con un tenente che
non avevo mai visto prima. Erano così presi tra loro che non mi
vide finché non le fui a pochi passi.
Ciao, Jordan! mi chiamò inaspettatamente. Vieni, per favore.
Fui lusingata che volesse parlarmi poiché, tra tutte le ragazze
più grandi, lei era quella che ammiravo di più. Mi chiese se stavo
andando alla Croce Rossa per preparare le bende. Era così. Bene,
potevo dire allora che quel giorno lei non sarebbe venuta? LuffiIl
Grande Gatsby
104
ciale, mentre Daisy parlava, la guardava nel modo in cui ogni ragazza
vorrebbe essere guardata e siccome la situazione mi sembrò
romantica, da allora non ho mai dimenticato questo incontro. Il
suo nome era Jay Gatsby e non lho rivisto per più di quattro anni;
anche quando lo rincontrai a Long Island, non realizzai subito che
si trattasse dello stesso uomo.
Ciò avveniva nel 1917. Dallanno successivo ebbi i miei primi corteggiatori
e cominciai a partecipare ai tornei, per cui non vedevo Daisy
molto spesso. Usciva con un piccolo gruppo di ragazzi più grandi,
quando si decideva a uscire con qualcuno. Giravano vari pettegolezzi
su di lei di come sua madre lavesse trovata mentre preparava le
valigie, in una notte dinverno, per andare a New York a salutare
un soldato che stava per andare oltreoceano. Riuscirono a fermarla,
ma non volle più parlare con la famiglia per alcune settimane. Dopo
questo episodio, non volle più uscire con nessun soldato ma solo con
pochi piedi-piatti o ipovedenti rimasti in città poiché riformati.
Lautunno successivo, fu di nuovo gioiosa, felice come sempre.
Fece il suo debutto in società dopo lArmistizio, e a febbraio si dice
che fosse fidanzata con un uomo di New Orleans. In giugno sposò
Tom Buchanan di Chicago con una cerimonia di una tale suntuosità,
che mai Louisville ne aveva viste di simili. Lui si presentò con
un centinaio di persone in quattro carrozze private e fittò un intero
piano del Mulbach Hotel; alla vigilia delle nozze le regalò una collana
di perle del valore di trecentocinquantamila dollari.
Fui la damigella donore. Andai in camera sua mezzora prima
del pranzo nuziale e la trovai distesa sul letto, bella come una notte
di giugno nel suo vestito a fiori ubriaca come una scimmia. Aveva
una bottiglia di vino bianco in una mano e una lettera nellaltra.
Fammi le congratulazioni, piagnucolò. Non ho mai bevuto
prima ma, oh! come me la sono goduta.
Cosè successo, Daisy?
Capitolo Quarto
105
Ero sbigottita, neanche a dirtelo; non avevo mai visto una ragazza
conciata così prima.
Tieni, tesoro. Prese a scavare in un cestino che aveva con lei
sul letto e tirò fuori la collana di perle. Portala giù e restituiscila a
chiunque labbia portata. Dì loro che Daisy ha cambiato idea. Dì
Daisy ha cambiato idea!
Cominciò a piangere piangeva e piangeva. Corsi fuori e trovai
una domestica di sua madre, chiudemmo a chiave la porta e le facemmo
un bagno freddo. Non voleva separarsi dalla lettera. Se la
portò nella vasca da bagno e la strizzò fino a renderla una poltiglia
umida, mi concesse di poggiarla in un portasapone solo quando
vide che cominciava a sciogliersi in piccoli pezzi, come neve.
Non disse altro. Le facemmo inalare dei fumi di ammoniaca e le
poggiamo del ghiaccio sulla fronte, poi la rinfilammo nel vestito e
mezzora dopo, quando uscimmo dalla stanza, le perle erano al suo
collo e lincidente era superato. Il giorno dopo alle cinque sposò
Tom Buchanan, senza un solo tentennamento, e partì per un viaggio
di tre mesi nei mari del Sud.
Li vidi a Santa Barbara quando rientrarono e pensai di non aver
mai visto una ragazza così pazza per il marito. Se lui si allontanava
per un istante, lei si guardava attorno, inquieta, chiedendo Dovè
Tom? e assumeva unespressione completamente assente finché
non lo vedeva riapparire alla porta. Era solita sedere sulla sabbia,
con la testa di lui in grembo, sfiorando i suoi occhi con le dita
e guardandolo con imperscrutabile piacere. Era toccante vederli
insieme ti riempiva di una gioia muta, affascinante. Tutto questo
avveniva ad agosto. La settimana dopo la mia partenza da Santa
Barbara, Tom centrò un camion sulla strada di Ventura, una notte,
e perdette una ruota della sua auto. La ragazza che era con lui finì
sui giornali poiché si ruppe un braccio era una delle cameriere
dellHotel Santa Barbara.
Il Grande Gatsby
106
Laprile successivo Daisy ebbe una bambina e decisero di andare
in Francia per un anno. Li vidi in primavera a Cannes e poi a
Deauville, infine tornarono a Chicago per sistemarsi. Daisy era famosa
a Chicago, come sai. Frequentavano una compagnia di gente
sregolata, tutti giovani come loro e ricchi, ma lei ne venne fuori con
una reputazione assolutamente perfetta. Forse perché non beve. È
un grande vantaggio non bere, quando si è in compagnia di grandi
bevitori. Puoi tenere a freno la tua lingua e, per di più, permetterti
qualche piccola scappatella poiché tutti sono così persi che non ti
vedono o non si curano di te. Forse Daisy non ha mai cercato altre
occasioni eppure cè qualcosa in quella sua voce
Bene, circa sei settimane fa, lei sentì il nome di Gatsby per la
prima volta dopo anni. Successe quando ti chiesi te ne ricordi?
se conoscevi Gatsby a West Egg. Quando tornasti a casa, lei venne
in camera mia, mi svegliò e chiese Quale Gatsby? e quando glielo
descrissi ero sveglia a metà lei disse, con una voce molto strana,
che doveva essere luomo che aveva conosciuto. Soltanto allora ricollegai
questo Gatsby con lufficiale nella sua auto bianca.»
Quando Jordan Baker finì di raccontarmi questa storia, avevamo
lasciato il Plaza da mezzora e stavamo attraversando in carrozzella
il Central Park. Il sole era calato dietro gli alti appartamenti delle
stelle del cinema, alle West Fifties, e le voci squillanti dei ragazzini,
già raccolti come grilli sullerba, si levavano nel caldo crepuscolo:
Sono lo Sceicco dArabia,
Il tuo amore mi appartiene.
Di notte, quando non riesci a dormire,
ti adulerò nella tua tenda
«È stata una strana coincidenza», dissi.
Capitolo Quarto
107
«Ma non sè trattato del tutto di una coincidenza.»
«Perché no?»
«Gatsby ha acquistato quella casa proprio perché Daisy fosse
esattamente dallaltro lato della baia.»
Quindi non era soltanto alle stelle che sera rivolto quella sera di
giugno. Mi tornò in mente sbucando, improvvisamente, dal grembo
del suo incerto splendore.
«Vorrebbe sapere
» continuò Jordan «
se saresti disposto ad
invitare Daisy a casa tua un pomeriggio e poi far venire anche lui.»
La modestia della richiesta mi scioccò. Aveva aspettato cinque
anni e comprato unenorme villa, dove dispensava polvere di stelle
a falene di ogni genere, solo per poter venire un pomeriggio nel
giardino di un estraneo.
«Dovevo conoscere tutta questa storia, prima che lui mi chiedesse
una simile sciocchezza?»
«Ha paura. Aspetta da tanto. Credeva ti potessi offendere.
Come vedi è molto tenace su questa faccenda.»
Qualcosa minfastidì.
«Perché non ha chiesto a te di organizzare lincontro?»
«Vuole che lei veda la sua casa», mi spiegò. «E la tua è proprio
lì affianco.»
«Oh!»
«Credo che si aspettasse di vederla partecipare a una delle sue
feste, qualche sera,» continuò Jordan «ma lei non ci è mai andata.
Poi ha cominciato a chiedere alla gente, casualmente, se qualcuno
la conoscesse e io sono la prima che ha trovato. Fu quella sera
che mi mandò a chiamare durante il party e avresti dovuto sentire
il piano macchinoso che mise su. Ovviamente, proposi subito un
pranzo a New York e credetti che stesse per impazzire: Non
voglio fare nulla che non sia più che corretto! prese a dire. Voglio
vederla vicino casa.»
Il Grande Gatsby
108
«Quando gli dissi che tu eri un caro amico di Tom, pensò subito
di abbandonare lidea. Non sa molto di Tom, anche se ha letto per
anni i giornali di Chicago, solo nella speranza di trovarci qualche
breve cenno al nome di Daisy.»
Sera fatto buio, e mentre passavamo sotto un piccolo ponte,
cinsi col braccio le spalle dorate di Jordan e lattirai a me invitandola
a cena. Dun tratto non pensavo più a Daisy e a Gatsby, ma
a questa persona limpida, altera e ben definita, che si serviva dello
scetticismo universale e sinarcava agile e sinuosa tra le mie braccia.
Una frase cominciò a martellarmi nelle orecchie con una sorta di
esaltante eccitazione: ci sono soltanto perseguitati e persecutori,
affaccendati e stanchi.
«E Daisy deve avere qualcosa nella sua vita», mormorò Jordan.
«Le va di vedere Gatsby?»
«Non deve saperne niente. Gatsby non vuole che lei sappia.
Devi soltanto invitarla per il tè.»
Superammo una barriera di alberi scuri e poi lo scorcio della
Cinquantanovesima Strada, una massa di pallida luce delicata illuminò
il parco. A differenza di Gatsby e Tom Buchanan, io non
avevo una donna il cui volto incorporeo fluttuasse lungo i cornicioni
scuri e le insegne abbaglianti, così attirai a me la ragazza che
avevo di fianco, cingendola tra le braccia. La sua bocca, pallida e
sdegnosa, sorrise e così la strinsi ancor di più, più vicina, questa
volta verso il mio volto.
109
Quando rientrai a West Egg, quella sera, ebbi per qualche
istante il timore che la mia casa fosse avvolta dalle fiamme.
Erano le due di notte e lintera punta della penisola
ardeva di luce che si rifletteva irreale sul boschetto, creando sottili
e prolungati bagliori sui cavi lungo la strada. Svoltando langolo mi
accorsi che era la casa di Gatsby, illuminata dalla torre alla cantina.
In un primo momento pensai si trattasse dellennesimo party,
una gran festa che si era trasformata in un nascondino o nel pigiarsi
come sardine, con lintera casa lasciata aperta al gioco. Ma
non si udiva alcun suono. Soltanto il vento tra gli alberi che faceva
oscillare i cavi e spegnere e accendere le luci, quasi come se la casa
strizzasse locchio nelloscurità. Quando il mio taxi si allontanò gemendo,
vidi Gatsby venirmi incontro attraverso il prato.
«La tua casa sembra lesposizione universale», dissi.
«Dici?» si voltò distrattamente. «Ho dato unocchiata ad alcune
stanze. Andiamo a Coney Island, vecchio mio. Con la mia auto.»
«È troppo tardi.»
«Beh, che ne diresti di fare un tuffo in piscina? Non lho ancora
adoperata questestate.»
«Devo andare a letto.»
«Va bene.»
Indugiò, guardandomi con impazienza repressa.
Capitolo Quinto
Il Grande Gatsby
110
«Ho parlato con la signorina Baker», dissi dopo qualche istante.
«Chiamerò Daisy domani e linviterò a prendere il tè.»
«Oh, va benissimo», disse spensierato. «Non vorrei crearti problemi.»
«Quale giorno preferiresti?»
«Quale giorno preferiresti tu?» mi corresse veloce. «Tho detto,
non vorrei disturbarti.»
«Che ne diresti di dopodomani?» Ci pensò un momento. Poi
disse con riluttanza: «vorrei far tagliare lerba.»
Entrambi la guardammo cera una linea precisa laddove finiva
il mio misero prato e cominciava il suo, più scuro, ben tagliato ed
esteso. Supposi si riferisse alla mia erba.
«Cè unaltra cosetta,» disse un po incerto, quasi esitando.
«Vorresti che rimandassimo di qualche giorno?» domandai.
«Oh, non è questo. Almeno
» Incominciò, farfugliando, una
serie di frasi. «Beh, pensavo
ascolta, vecchio mio, tu non guadagni
tanti quattrini, è vero?»
«Non tanti.»
La risposta sembrò tranquillizzarlo e continuò più fiducioso.
«Lo supponevo, senza offesa
Vedi, ho un lavoretto, una piccola
attività secondaria, capisci? E ho pensato che se non guadagni
tanto
Tu vendi azioni, vero, vecchio mio?»
«Ci provo.»
«Bene, questa cosa potrebbe interessarti. Non ti porterebbe via
molto tempo e potresti realizzare un po di soldi. Si tratta di una
faccenda un po confidenziale.»
Ora so che, in circostanze diverse, quella chiacchierata avrebbe
potuto cambiarmi la vita. Ma siccome lofferta era fatta, evidentemente
e senza troppo garbo, in cambio del favore che gli avrei reso,
non avevo altra scelta se non quella di rifiutare con decisione.
«Sono molto impegnato», dissi. «Ti ringrazio tanto, ma non potrei
prendere altro lavoro.»
Capitolo Quinto
111
«Non avresti nulla a che fare con Wolfshiem.» Forse credeva
che stessi esitando per via dellaffare accennato a pranzo, ma gli
assicurai che si stava sbagliando. Attese per un lungo istante, sperando
volessi intavolare una conversazione, ma ero troppo assorto
per essere comprensivo, così se ne tornò a casa a malincuore.
La serata mi aveva reso spensierato e felice; credo che caddi
in un sonno profondo non appena varcai la porta dingresso di
casa. Per questo non saprei dire se Gatsby andò o meno a Coney
Island o se continuò a vagare a lungo per le stanze della sua casa
sfavillante. Il mattino successivo, chiamai Daisy dallufficio e linvitai
per il tè.
«Non portare Tom», lavvisai.
«Cosa?»
«Non portarti dietro Tom.»
«Chi è Tom?» chiese con aria innocente.
Il giorno concordato pioveva a dirotto. Alle undici un uomo in
impermeabile che si trascinava dietro una tosaerba bussò alla mia
porta e disse che il signor Gatsby lo aveva mandato per tagliare il
prato. Ciò mi fece riflettere sul fatto che avevo completamente dimenticato
di avvisare la mia finlandese di rientrare per loccasione,
così presi lauto e andai al villaggio di West Egg per cercarla, attraverso
vialetti imbiancati a calce e fradici di pioggia, e per comprare
delle tazze, dei limoni e dei fiori.
I fiori si rivelarono inutili poiché alle due giunse da casa di Gatsby
unintera serra con innumerevoli portafiori. Unora dopo la
porta dingresso fu spalancata e Gatsby, in completo di flanella
bianca con camicia color argento e cravatta dorata, entrò di corsa.
Era pallido e, sotto gli occhi, aveva degli evidenti segni scuri che
denotavano una prolungata insonnia.
«Tutto ok?» chiese immediatamente.
«Lerba sembra apposto, se intendi questo.»
Il Grande Gatsby
112
«Quale erba?» chiese senza espressione. «Oh, lerba in giardino.
» Guardò fuori, oltre la finestra, verso lerba, ma a giudicare dalla
sua espressione, credo non vedesse nulla.
«Sembra davvero perfetta», osservò vagamente. «Un giornale
sosteneva che dovrebbe smettere di piovere verso le quattro. Credo
fosse The Journal. Hai tutto ciò che occorre per
per il tè?»
Lo condussi in cucina dove guardò con un lieve biasimo la finlandese.
Insieme valutammo i dodici dolcetti al limone presi in pasticceria.
«Possono andare?» chiesi.
«Certo, certo! Vanno benissimo!» e aggiunse, come forzandosi,
«
vecchio mio.»
Verso le tre e mezzo la pioggia si calmò per poi tramutarsi in
una foschia umida nella quale qualche rara e minuscola goccia vagava
simile a rugiada. Gatsby guardava con occhi assenti una copia
dellEconomics di Clay, sussultando al calpestio della finlandese che
scuoteva il pavimento della cucina e sbirciando, di tanto in tanto,
verso le finestre appannate come se allesterno si stessero verificando
una serie di avvenimenti invisibili ma allarmanti. Alla fine si alzò
e mi disse, con voce incerta, che se ne sarebbe tornato a casa.
«Cosa?»
«Non verrà nessuno per il tè. È troppo tardi!» Guardò lorologio
come se avesse degli impegni urgenti altrove. «Non posso
aspettare tutto il giorno.»
«Non essere stupido, mancano ancora due minuti alle quattro.»
Sedette sconsolato, quasi lo avessi obbligato e, in quel medesimo
istante, si udì il rumore del motore di unauto che svoltava
nel mio vialetto. Balzammo entrambi in piedi e, un po nervoso
anchio, uscii in giardino.
Al di sotto delle spoglie e gocciolanti piante di lillà, una grossa
automobile decappottabile stava risalendo il viale. Si fermò. Il volCapitolo
Quinto
113
to di Daisy, piegato su di un lato, sotto un tricorno color lavanda,
mi guardava con un luminoso sorriso estatico.
«È proprio qui che abiti, carissimo?»
Linebriante ondulazione della sua voce era un tonico fantastico
nella pioggia. Rimasi ad ascoltarne il suono per qualche istante,
su e giù, col mio orecchio soltanto, prima che giungessero
le parole. Una ciocca di capelli umidi le si era posata, come un
tratto di matita blu, lungo la guancia e la sua mano era umida e
ricoperta di gocce brillanti quando la presi per aiutarla a scendere
dallauto.
«Ti sei innamorato di me?» mi sussurrò allorecchio. «Altrimenti,
per quale ragione hai voluto che venissi da sola?»
«Questo è il segreto del Castello di Rackrent. Dì al tuo chauffeur
di andarsene e di tenersi impegnato per unora.»
«Torna tra unora, Ferdie.» Quindi, con un mormorio serioso,
«il suo nome è Ferdie.»
«La benzina gli dà noie al naso?»
«Non credo», disse con fare innocente. «Perché?»
Entrammo. Con mia grande sorpresa, il soggiorno era deserto.
«Beh, questa è buffa!» esclamai.
«Cosè buffo?»
Voltò il capo quando si udì bussare, in maniera leggera, quasi
impercettibile, alla porta dingresso. Andai ad aprire. Gatsby, pallido
come la morte, con le mani gettate come pesi nelle tasche della
giacca, se ne stava in piedi in una pozza dacqua fulminandomi
tragicamente con gli occhi.
Con le mani ancora in tasca, entrò di corsa, si voltò di scatto
quasi camminasse su un filo, e scomparve in soggiorno. Non fu per
nulla buffo. Consapevole del forte battito del mio cuore, chiusi la
porta alla pioggia sempre più scrosciante.
Il Grande Gatsby
114
Per quasi mezzo minuto non si udì alcun suono. Poi dal soggiorno
percepii una sorta di mormorio sommesso e parte di una risata
seguita dalla voce di Daisy su una nota limpida e artificiale: «Che
piacere rivederti.»
Seguì una pausa tragicamente lunga. Non avevo nulla da fare
nellingresso, così entrai anchio in soggiorno.
Gatsby, con le mani ancora in tasca, era poggiato alla mensola
del caminetto dando limpressione di essere a proprio agio, quasi
un po annoiato, sebbene fosse in una posa innaturale. La sua testa
era così reclinata che toccava lorologio fuori uso sulla mensola e,
da quella posizione, i suoi occhi folli osservavano Daisy che sedeva
spaventata ma con grazia sullorlo di una sedia scomoda.
«Ci conosciamo già», mormorò Gatsby. I suoi occhi mi seguirono
momentaneamente e le labbra abbozzarono un tentativo di sorriso,
subito abortito. Per fortuna lorologio colse questo momento
per tentennare pericolosamente sotto la pressione della sua testa, al
che lui si voltò e lo bloccò con dita tremanti ricollocandolo al suo
posto. Poi sedette, rigido, il gomito sul bracciolo del sofà e il mento
in una mano.
«Mi dispiace per lorologio», disse.
Il mio volto ardeva, ora, di un intenso calore tropicale. Non riuscivo
a spiccicare un solo luogo comune tra le migliaia che avevo
in testa.
«È un vecchio orologio,» risposi stupidamente.
Penso che per qualche istante tutti credemmo che si fosse frantumato
sul pavimento.
«Non ci vediamo da molto tempo», disse Daisy col tono di voce
più naturale che le riuscì di trovare.
«Cinque anni il prossimo novembre.»
Lautomatismo della risposta di Gatsby ci costrinse allimpasse
per almeno un altro minuto. Li avevo fatti alzare entrambi con il
Capitolo Quinto
115
disperato proposito di aiutarmi a fare il tè, quando dalla cucina
sbucò la diabolica finlandese portandolo su un vassoio.
Nella gradita confusione della distribuzione di tazze e pasticcini,
si ristabilì un certo decoro fisico. Gatsby si oscurò e, mentre
Daisy ed io parlavamo, ci guardava fisso con occhi nervosi, infelici.
Ad ogni modo, siccome non si riusciva a rompere il ghiaccio, alla
prima occasione utile mi alzai scusandomi.
«Dove vai?» domandò Gatsby subito allarmato.
«Torno subito.»
«Devo parlarti di una cosa, prima che tu vada.»
Mi seguì, sconvolto, in cucina, chiuse la porta e sussurrò: «Oh,
Dio!» in preda alla disperazione.
«Che succede?»
«È stato un terribile errore», disse scuotendo la testa «un terribile
terribile errore.»
«È solo che sei imbarazzato, tutto qui» e fortunatamente aggiunsi:
«Anche Daisy lo è.»
«Lei è imbarazzata?» ripeté incredulo.
«Almeno quanto te.»
«Non parlare così forte.»
«Ti stai comportando come un ragazzino», dissi duramente.
«Non solo, ma sei un maleducato. Daisy è di là che siede da sola.»
Alzò la mano per farmi tacere, mi guardò con unostilità difficile
da dimenticare, poi aprì la porta cautamente e tornò nellaltra stanza.
Uscii dalla porta di servizio quella che Gatsby aveva utilizzato
per fare il suo giro della casa in preda al nervosismo mezzora
prima e corsi verso un enorme albero nodoso la cui fitta chioma
creava un riparo contro la pioggia. Stava ancora diluviando e
il mio prato irregolare, ben tagliato dal giardiniere di Gatsby, era
completamente cosparso di piccole pozzanghere fangose e paludi
preistoriche. Non cera nulla da osservare da sotto lalbero, tranne
Il Grande Gatsby
116
lenorme casa di Gatsby, così mi misi ad ammirarla, come Kant col
suo campanile, per una buona mezzora. Laveva fatta costruire un
industriale della birra, dieci anni prima, quando erano iniziate ad
andare di moda le costruzioni in stile e girava una storia secondo
la quale sarebbe stato disposto a pagare cinque anni di tasse per
tutti i cottage dei vicini se i proprietari avessero ricoperto i loro
tetti di paglia. Forse il comune rifiuto diede un duro colpo al suo
progetto di fondare una Famiglia andò incontro ad un rapido
declino. I figli vendettero la casa con la corona nera ancora sulla
porta. Gli americani, seppure accettino di buon grado di essere dei
servi, sono sempre stati riluttanti allidea di sembrare dei contadini.
Mezzora dopo il sole tornò a fare capolino e lauto del droghiere
svoltò sul viale di Gatsby con le derrate per la cena dei domestici
protette con le pellicole sono convinto che lui non ne avrebbe
mangiato affatto. Una cameriera cominciò ad aprire le finestre dei
piani superiori della casa, apparve per qualche istante in ciascuna e,
sporgendosi da una larga balconata centrale, sputò pensosamente
in giardino. Era il momento di rientrare. La pioggia cadendo sembrava
quasi il mormorio delle loro voci che si alzavano ed ingrossavano
seguendo il flusso delle emozioni. Ma, nella sopraggiunta
quiete, credetti che anche nella casa fosse caduto il silenzio.
Entrai facendo ogni possibile rumore in cucina, cercando solo
di evitare di ribaltare il fornello ma non credo che sentirono
nulla. Erano seduti ai due lati del divano e si guardavano, come
se qualche domanda fosse ancora nellaria; ogni traccia dellimbarazzo
era sparita. Il viso di Daisy era rigato dalle lacrime e quando
entrai, balzò in piedi cominciando ad asciugarsele col fazzoletto
davanti allo specchio. Ma in Gatsby cera stati un cambiamento
semplicemente strabiliante. Era letteralmente raggiante; senza alcun
segno di esultanza, irradiava un nuovo benessere che riempiva
la piccola stanza.
Capitolo Quinto
117
«Oh, salve, vecchio mio», disse come se non mi vedesse da anni.
Pensai, per un momento, che volesse stringermi la mano.
«Ha smesso di piovere.»
«Ha smesso?» Quando comprese di cosa stavo parlando, e vide che
cerano i primi timidi luccichii di sole nella stanza, sorrise come lometto
di un igrometro, come un estatico patrono della luce rinascente, e
ripeté la notizia a Daisy: «Cosa ne pensi? Ha smesso di piovere.»
«Ne sono felice, Jay.» La sua gola, tutta dolente di bellezza triste,
parlò solo della sua gioia inattesa.
«Vorrei che tu e Daisy veniste a casa mia» disse, «vorrei fargliela
vedere.»
«Sei sicuro di volere che venga anchio?»
«Assolutamente, vecchio mio.»
Daisy andò disopra a lavarsi la faccia troppo tardi pensai, umiliato,
alle mie asciugamani mentre Gatsby ed io aspettavamo sul prato.
«La casa si presenta bene, non è vero?» domandò. «Guarda
come tutta la facciata prende luce.»
Convenni che era splendida.
«Si.» La scorse tutta, guardando ogni porta ad arco e la torre
squadrata. «Mi ci sono voluti solo tre anni per mettere da parte il
denaro per comprarla.»
«Credevo li avessi ereditati, i soldi.»
«Infatti, vecchio mio», rispose automaticamente «ma ne persi
una gran parte nel grande panico il panico della guerra.»
Penso che non si accorgesse neanche di cosa stesse dicendo poiché
quando gli chiesi quale fosse la sua occupazione, rispose «sono
affari miei», prima di realizzare che non era una risposta appropriata.
«Oh, sono impegnato in molte cose», si corresse. «Sono stato
nel settore farmaceutico e poi in quello del petrolio. Ma ora non
sono in nessuno dei due.» Mi guardò con maggiore attenzione.
«Vuoi dire che stai riflettendo sulla proposta dellaltra sera?»
Il Grande Gatsby
118
Prima che potessi rispondere, Daisy uscì di casa e due file di
bottoni dottone del suo vestito brillarono nella luce del sole.
«È questa casa enorme?» esclamò indicandola.
«Ti piace?»
«È magnifica, ma non capisco come tu possa viverci da solo.»
«La riempio sempre di gente interessante, notte e giorno. Gente
che fa cose interessanti. Gente famosa.»
Piuttosto che prendere la scorciatoia lungo la spiaggia, scendemmo
per strada ed entrammo dal grande cancello principale.
Con mormorii affascinati, Daisy ammirava i vari scorci dai contorni
feudali che si stagliavano contro il cielo, i giardini, il vivace odore
delle giunchiglie, il frizzante profumo del biancospino, dei prugni
in fiore e il pallido aroma dorato delle viole. Fu strano giungere ai
gradini di marmo senza imbattersi in calche di vestiti brillanti che
entravano e uscivano dalla porta e senza alcuna musica, ma solo il
canto degli uccelli sugli alberi.
Una volta entrati, attraversammo sale da musica in stile Maria
Antonietta e i saloni Restaurazione; avevo la sensazione che ci fossero
gli ospiti nascosti dietro i divani e sotto i tavoli con lordine
di tacere e trattenere il respiro finché non fossimo passati. Quando
Gatsby chiuse la porta della Biblioteca del Merton College, avrei
giurato di aver sentito luomo dagli occhi di gufo prorompere in
una risata spettrale.
Andammo di sopra e attraversammo camere da letto rivestite
di seta rosa e color lavanda e rese vivaci da fiori freschi; attraverso
spogliatoi, sale da gioco e bagni con vasche incavate entrammo in
una stanza dove un uomo dai capelli arruffati e in pigiama, stava facendo
degli esercizi ginnici sul pavimento. Era il signor Klipspringer,
il pensionante. Quel mattino lavevo visto aggirarsi famelico
verso la spiaggia. Alla fine giungemmo allappartamento di Gatsby:
una camera da letto, un bagno e uno studio in stile Adam, dove
Capitolo Quinto
119
sedemmo a bere un bicchiere di qualche Chartreuse che prese da
un armadio a muro.
Non aveva smesso, neanche per un istante, di guardare Daisy e
credo che stesse rivalutando ogni oggetto della casa in base allimpressione
che ricavava dagli occhi, adorati, di lei. Ogni tanto fissava
gli oggetti, stordito, come se la sua presenza, reale e stupefacente, li
rendessi irreali. Dun tratto poco ci mancò che non ruzzolasse giù
per una rampa di scale.
La sua camera da letto era la più semplice ad eccezione del
guardaroba che era guarnito con un servizio da toilette in puro
oro massiccio. Daisy prese la spazzola con gioia e se la passò tra
i capelli, al che Gatsby sedette coprendosi gli occhi con le mani,
iniziando a ridere.
«È una cosa incredibile, vecchio mio», disse con ilarità. «Non
posso
quando ci penso
»
Era evidentemente passato attraverso due stati danimo e ora
stava entrando in un terzo. Dopo limbarazzo e la gioia irrazionale,
era divorato dallo stupore per la sua presenza. Era vissuto così a
lungo coltivando quellidea, laveva tanto sognata, aspettata stringendo
i denti, per così dire, per arrivare a un grado dinconcepibile
intensità. Ora, per reazione, stava correndo come un orologio
troppo carico.
Ritirandosi un istante, aprì per noi due enormi armadi dove erano
ammassati i suoi abiti e i vestiti da camera, le cravatte e le camicie,
impilate come mattoni in una ciminiera a gruppi di dozzine.
«Ho un tizio in Inghilterra che mi compra gli abiti. Me ne invia
una selezione allinizio di ogni stagione, primavera e autunno.»
Prese una pila di camicie e cominciò a lanciarle, luna dopo laltra,
verso noi: camicie di puro lino, seta spessa e flanella leggera,
che perdevano le pieghe cadendo a ricoprire il tavolo in un disordine
multicolore. Mentre le ammiravamo, lui aumentò il ritmo e il
Il Grande Gatsby
120
soffice e ricco cumulo divenne sempre più alto camicie a righe,
con motivi, a scacchi color corallo e verde-mela, lavanda e arancio
chiaro, coi monogrammi in indaco. Improvvisamente, con un grido
soffocato, Daisy abbandonò il capo tra le camicie e ruppe in un
pianto a dirotto.
«Sono camicie così belle», singhiozzò con voce attenuata dal soffice
cumulo. «Sono triste poiché non ho mai visto camicie così
così belle, prima.»
Dopo la casa dovevamo vedere il parco, la piscina, lidrovolante
e i fiori di mezza estate, ma fuori della finestra di Gatsby ricominciò
a piovere e così rimanemmo in fila a guardare la superficie ondulata
dello stretto.
«Se non fosse per la nebbia, potresti vedere casa tua al di là della
baia» disse Gatsby. «Cè sempre una luce verde che brilla di notte
in fondo al tuo pontile.»
Daisy infilò, dun tratto, il braccio sotto quello di lui, ma Gatsby
parve assorto in ciò che aveva appena detto. Verosimilmente intuiva
che lenorme significato, che quella luce aveva avuto per lui,
stava svanendo per sempre. A confronto della grande distanza che
lo aveva separato da Daisy, la luce gli era sembrata molto vicina,
quasi potesse sfiorarla. Era sembrata vicina quanto una stella alla
luna. Ora era tornata a essere una luce verde su un pontile. Nel suo
elenco di oggetti incantati, veniva a mancarne uno.
Cominciai a girare per la stanza esaminando vari oggetti indefiniti
nella penombra. Una grande fotografia di un uomo anziano in
tenuta da yacht, appesa alla parete dietro la sua scrivania, attirò la
mia attenzione.
«Chi è questuomo?»
«Quelluomo? Quello è il signor Dan Cody, vecchio mio.»
Il nome mi suonò vagamente familiare.
«Ora è morto. È stato il mio miglior amico, anni fa.»
Capitolo Quinto
121
Cera una piccola fotografia di Gatsby, anche lui in tenuta da
yacht, sullo scrittoio Gatsby con il capo reclinato allindietro
sprezzante scattata, apparentemente, quando aveva diciotto anni.
«È adorabile», esclamò Daisy. «La Pompadour! Non mi avevi
detto di avere una Pompadour
o uno yacht.»
«Guarda qui», disse Gatsby veloce. «Ci sono un sacco di ritagli
su di te.»
Stettero luno di fianco allaltra ad esaminarli. Volevo quasi chiedere
di vedere i rubini, quando il telefono squillò e Gatsby sollevò
il ricevitore.
«Si
Beh, non posso parlare adesso
No, non posso parlare
ora, vecchio mio
Ho detto una città piccola
Dovrebbe pur sapere
cosè un città piccola
Beh, non ci è poi tanto utile, se Detroit
corrisponde alla sua idea di città piccola
»
Riagganciò.
«Venite qui, presto!» esclamò Daisy alla finestra.
La pioggia cadeva ancora, ma il cielo si era schiarito a ovest, un
cumulo di nuvole rosee e dorate correva sul mare.
«Guarda», sussurrò, poi dopo un istante: «mi piacerebbe prendere
una di quelle nuvole rosa, mettertici dentro e portarti in giro.»
Provai ad andarmene, ma non ne vollero sapere; forse la mia
presenza li soddisfaceva più dello stare da soli.
«Ora vi dico cosa faremo» disse Gatsby «diremo a Klipspringer
di suonare il pianoforte.»
Uscì dalla stanza chiamando «Ewing!» e tornò dopo pochi minuti
accompagnato da un giovanotto imbarazzato e un po macilento
con degli occhiali dalla montatura in tartaruga e dei radi capelli
biondi. Adesso era vestito decentemente con una camicia sportiva
aperta sul collo, scarpe con suola in gomma e pantaloni in tela dun
colore grigio fumo.
«Abbiamo interrotto i suoi esercizi?» chiede Daisy educatamente.
Il Grande Gatsby
122
«Stavo dormendo», esclamò il signor Klipspringer in uno spasmo
di imbarazzo. «È così, ho dormito. Poi mi sono alzato
»
«Klipspringer suona il piano», disse Gatsby, zittendolo. «Non è
vero, Ewing, vecchio mio?»
«Non sono bravo. Non so
non so quasi suonare. Sono fuori
eserciz
»
«Bene, andiamo di sotto», lo interruppe Gatsby. Girò un interruttore.
Le finestre grigie scomparvero e la casa brillò tutta riempendosi
di luce.
Nella sala da musica Gatsby illuminò una piantana accanto al
piano. Accese una sigaretta a Daisy con un fiammifero tremolante
e sedette con lei sul divano dallaltro lato della stanza dove non
giungeva altra luce se non quella della sala che si rifletteva sul pavimento.
Dopo che Klipspringer ebbe suonato The Love Nest si voltò
sullo sgabello e cercò con aria infelice Gatsby, nella penombra.
«Sono fuori esercizio, come vedete. Vi ho detto che non so suonare.
Sono fuori eserciz
»
«Poche chiacchiere, vecchio mio», ordinò Gatsby. «Suona!»
In the morning,
in the evening,
aint we got fun
Al mattino,
alla sera,
ci divertiamo
Fuori il vento soffiava forte e cera una vaga eco di tuoni dallo
stretto. A West Egg, ora, si accendevano tutte le luci; i treni elettrici
con i pendolari correvano a capofitto nella pioggia da New York
Capitolo Quinto
123
verso casa. Era lora del profondo cambiamento negli uomini, si
stava generando leccitazione nellaria.
One things sure and nothings surer
The rich get richer and the poor get
Children.
In the meantime,
in between time
Una sola cosa è certa e nullaltro
i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri fanno sempre più
Bambini.
In tanto,
nel frattempo
Quando li raggiunsi per salutarli, vidi che sul volto di Gatsby
era tornata lespressione di smarrimento, quasi lo tormentasse un
leggero dubbio sullentità della sua felicità attuale. Cinque anni!
Dovevano esserci stati dei momenti, perfino in quel pomeriggio,
nei quali Daisy non sera dimostrata allaltezza dei suoi sogni,
non tanto per qualche sua colpa quanto per la colossale vitalità
della sua illusione. Si era lanciato in essa con una tale passione
creativa accrescendola a ogni momento, ornandola con ogni piuma
vivace che trovasse sulla sua strada. Non cè fuoco o gelo che
possa sfidare ciò che un uomo arriva a custodire tra i fantasmi del
proprio cuore.
Quando tornai a guardarlo, si era ripreso visibilmente. La sua
mano prese quelle di lei e, quando gli sussurrò qualcosa allorecchio,
si voltò in un impeto di emozione. Credo che quella voce lo
prendesse maggiormente per il suo calore fluttuante, febbrile poiché
era oltre ogni sogno: quella voce era un canto immortale.
Il Grande Gatsby
124
Si erano dimenticati di me, ma Daisy alzò lo sguardo e tese la
mano; Gatsby non mi riconobbe affatto. Li guardai ancora una volta
e loro ricambiarono lo sguardo, lontani, dominati da una vita intensa.
Poi me ne uscii dalla stanza e scesi giù per la scala in marmo,
sotto la pioggia, lasciandoli insieme.
125
Più o meno in quel periodo, un ambizioso giovane reporter
di New York si presentò alla porta di Gatsby, una mattina,
chiedendogli se avesse qualcosa da dichiarare.
«Riguardo cosa?» rispose Gatsby con garbo.
«Beh
qualsiasi dichiarazione.»
Venne fuori, dopo cinque minuti di confusione, che luomo aveva
sentito il nome di Gatsby in redazione riguardo qualcosa che non voleva
rivelare o che non aveva capito del tutto. Quello era il suo giorno
libero e così, con lodevole iniziativa, si era precipitato a vedere.
Fu un colpo sparato a caso, ma lintuizione del reporter era
giusta. La notorietà di Gatsby, diffusa dalle centinaia di persone
che ne avevano accettato lospitalità sentendosi così autorizzate a
discettare del suo passato, era cresciuta tutta lestate fino quasi a
diventare essa stessa notizia. Gli venivano associate leggende contemporanee
come loleodotto sotterraneo per il Canada e girava
una diceria insistente secondo la quale non abitava in una casa, ma
in una nave che sembrava una casa e si muoveva, in gran segreto,
su e giù per la costa di Long Island. Perché, poi, queste invenzioni
fossero fonte di soddisfazione per James Gatz del North Dakota,
non è affatto semplice a spiegarsi.
James Gatz questo era in realtà o almeno legalmente il suo
nome. Laveva cambiato alletà di diciassette anni, nel preciso istan-
Capitolo Sesto
Il Grande Gatsby
126
te in cui ebbe inizio la sua carriera: quando vide lo yacht di Dan
Cody gettare lancora nelle secche più insidiose del Lago Superiore.
Era James Gatz che bighellonava lungo la spiaggia, quel pomeriggio,
con un maglione verde tutto strappato e un paio di calzoni
di tela, ma era già Jay Gatsby che prese in prestito una barca a remi,
vogò fino al Tuolomee per avvisare Cody che il vento avrebbe potuto
sorprenderlo e farlo a pezzi in mezzora.
Suppongo che avesse pronto quel nome già da tempo, anche
allora. I suoi genitori erano dei contadini falliti, incapaci la sua
immaginazione non li aveva mai completamente accettati come tali.
La verità era che Jay Gatsby, di West Egg - Long Island, scaturiva
dalla sua platonica concezione di sé. Era un figlio di Dio un modo
di dire che, se mai ha un senso, può significare soltanto questo e
doveva occuparsi degli affari del Padre suo al servizio di una bellezza
vistosa, volgare e meretricia. Così inventò proprio quel tipo
di Jay Gatsby che un diciassettenne potrebbe inventare e a quella
concezione di sé rimase fedele fino alla fine.
Per più di un anno aveva battuto la sponda meridionale del Lago
Superiore facendo il pescatore di molluschi o di salmone e qualsiasi
altra attività gli procurasse da mangiare e un letto. Il suo corpo
abbronzato, sempre più resistente, reggeva agilmente i lavori, per
metà brutali e per metà lenti, di quei giorni tonificanti. Conobbe
presto le donne e siccome presero a viziarlo, divenne sprezzante
nei loro confronti: con le giovani vergini perché erano ignoranti,
con le altre perché isteriche in questioni che, nel suo esasperato
egocentrismo, dava per scontate.
Ma il suo cuore era agitato da una costante e turbolenta rivolta.
Le ambizioni più grottesche e fantasiose gli davano il tormento, di
notte, nel letto. Un universo dineffabile volgarità dilagava nel suo
cervello mentre lorologio ticchettava sul lavabo e la luna infracidava
con luce umida il groviglio dei suoi abiti gettati alla rinfusa sul
Capitolo Sesto
127
pavimento. Ogni notte aggiungeva un tratto al disegno della sua
fantasia finché la sonnolenza, con labbraccio delloblio, piombava
nel mezzo di qualche scena vivida. Per un po questi sogni ad occhi
aperti fornirono uno sfogo alla sua immaginazione; erano una
soddisfacente allusione allirrealtà della realtà, la promessa che la
roccia del mondo poggiasse saldamente sulle ali di una fata.
Listinto della gloria futura lo aveva spinto, alcuni mesi prima, al
piccolo Lutheran College di SantOlaf, nel Minnesota meridionale.
Ci rimase per due settimane, sbigottito per la feroce indifferenza
dellistituto verso le trombe del suo destino, verso il destino stesso
e pieno di disprezzo per il lavoro da portiere con il quale doveva
mantenersi. Poi sera trascinato di nuovo al Lago Superiore ed era
ancora alla ricerca di qualcosa da fare quando lo yacht di Dan Cody
gettò lancora nelle secche lungo la costa.
Cody aveva allincirca cinquanta anni allora ed era il tipico prodotto
delle miniere dargento del Nevada, dello Yukon e di ogni corsa ai
metalli dal 75 in poi. La compravendita del rame in Montana, che lo
rese multimilionario, lo trovò fisicamente robusto ma sullorlo di una
leggera demenza, nel sospetto della quale uninfinità di donne si diede
da fare per separarlo dai suoi quattrini. Lirretimento di pessimo
gusto col quale Ella Kaye, la giornalista, gli fece da Madame de Mantenon,
approfittando della sua debolezza e mandandolo per mare con
lo yacht, divenne di dominio pubblico nellampolloso giornalismo del
1902. Costeggiava, da ormai cinque anni, rive troppo ospitali quando
si presentò come il destino di James Gatz nella Little Girl Bay.
Per il giovane Gatz, appoggiato sui remi e con lo sguardo rivolto
alla balaustra del ponte, lo yacht rappresentava tutta la bellezza e il
fascino del mondo. Suppongo che sorrise a Cody aveva già scoperto,
probabilmente, che piaceva alla gente quando sorrideva. A
ogni modo Cody gli pose qualche domanda (una delle quali diede
origine al nuovo nome) e constatò che era sveglio ed estremamente
Il Grande Gatsby
128
ambizioso. Dopo qualche giorno se lo portò a Duluth e gli comprò
una giacca blu, sei paia di pantaloni di tela grezza bianca e un berretto
da yacht. E quando il Toulomee partì per le Indie Occidentali
e la costa della Barberia, anche Gatsby partì.
Era stato assunto con un incarico piuttosto vago: finché rimase
con Cody fu a turno steward, compagno, skipper, segretario e
anche carceriere poiché Dan Cody sobrio sapeva cosera in grado
di combinare Dan Cody ubriaco e si era premunito contro ogni
evenienza riponendo sempre più fiducia in Gatsby. Laccordo durò
cinque anni, durante i quali la barca fece per ben tre volte il giro
del continente. Sarebbe potuto durare allinfinito se, una notte a
Boston, non fosse venuta a bordo Ella Kaye e la settimana dopo
Dan Cody, in maniera ben poco ospitale, non fosse morto.
Ricordo il suo ritratto in camera di Gatsby: un uomo brizzolato,
rubicondo con una faccia dura e senza espressione il pioniere
debosciato che, in una fase della vita americana, aveva riportato
sulla costa orientale la barbara violenza dei bordelli e dei saloon di
frontiera. In un certo senso era per via di Cody che Gatsby beveva
così poco. Capitava, alle volte durante i suoi allegri party, che le
donne gli stropicciassero i capelli con lo champagne; quanto a lui,
aveva preso labitudine di lasciar perdere i liquori.
E fu da Cody che ereditò i soldi un lascito di circa venticinque
mila dollari. Non li ebbe. Non capì mai lo stratagemma legale usato
contro di lui, ma ciò che restava dei milioni passò interamente a
Ella Kaye. Il suo lascito fu una singolare educazione; la vaga sagoma
di Jay Gatsby sera riempita dellessenzialità di un uomo.
Mi raccontò tutto questo molto più tardi, ma ho pensato di riportarlo
ora con lintento di smentire i primi pettegolezzi sulle sue
origini che non furono mai neanche un timido ricordo della realtà.
Per di più mi parlò in un momento di confusione, quando avevo
ormai deciso di credere tutto e nulla riguardo lui. Così approfitto
Capitolo Sesto
129
di questa breve pausa, mentre Gatsby, per così dire, riprendeva
fiato, per chiarire questa serie di equivoci una volta per tutte.
Fu una pausa anche nei miei rapporti con lui. Per diverse settimane
non lo vidi e non sentii la sua voce al telefono ero per lo
più a New York, in giro con Jordan o a cercare di ingraziarmi la sua
anziana zia ma, alla fine, una domenica pomeriggio andai a casa
sua. Non ero arrivato neanche da due minuti che giunse qualcuno,
con Tom Buchanan, per un drink. Ero sgomento ovviamente ma la
cosa sorprendente, in realtà, era che ciò non fosse accaduto prima.
Erano in tre, a cavallo: Tom, un uomo di nome Sloane e una
graziosa donna in un completo marrone, già ospite in precedenza.
«Che piacere vedervi», disse Gatsby alzandosi nel portico.
«Sono felice che siate capitati qui.»
Come se gliene importasse qualcosa!
«Sedete. Prendete una sigaretta o un sigaro.» Camminava veloce
attraverso la stanza suonando i campanelli. «Vi faccio portare
subito da bere.»
Era profondamente colpito dalla presenza di Tom. Sembrava
che sarebbe rimasto a disagio, in un certo senso, finché non avesse
offerto loro qualcosa, credendo, in modo vago, che fossero venuti
apposta. Sloan non voleva nulla. Una limonata? No, grazie. Un po
di champagne? No, davvero, grazie
Mi dispiace
«Avete fatto un bel giro?»
«Ci sono delle belle strade nei dintorni.»
«Suppongo che le automobili
»
«Già...»
Spinto da un irresistibile impulso, Gatsby si voltò verso Tom che
aveva accettato la presentazione come fosse uno sconosciuto.
«Credo che ci siamo già conosciuti, signor Buchanan.»
«Oh, si» disse Tom con sbadata educazione ma, evidentemente,
senza ricordare. «Certo. Mi ricordo benissimo.»
Il Grande Gatsby
130
«Circa due settimane fa.»
«Si. Era con Nick.»
«Conosco sua moglie», continuò Gatsby quasi minaccioso.
«Davvero?»
Tom si voltò verso me.
«Tu vivi qui vicino, Nick?»
«La casa affianco.»
«Davvero?»
Sloane non entrò nella conversazione oziando, altezzoso, sulla
sua sedia; neppure la donna parlava allinizio finché inaspettatamente,
dopo due drink, non divenne loquace.
«Verremo tutti alla sua prossima festa, signor Gatsby», propose.
«Che ne dice?»
«Certo. Mi farebbe molto piacere avervi qui.»
«È molto gentile», disse il signor Sloane senza gratitudine. «Beh...
credo sia ora di tornare a casa.»
«Per favore, non abbiate fretta», li incitò Gatsby. Aveva ripreso
il controllo di se stesso, ora, e voleva osservare meglio Tom. «Perché
non
perché non restate a cena? Non mi meraviglierei se altra
gente venisse su da New York.»
«Venga lei a cena da me», disse entusiasta la signora. «Tutti e
due.»
Questo includeva anche me. Il signor Sloane si alzò.
«Andiamo», disse rivolto soltanto a lei, però.
«Dico sul serio», insisté lei. «Mi farebbe piacere se veniste. Cè
tanto spazio.»
Gatsby mi guardò con aria interrogativa. Voleva andare e non
capiva che il signor Sloane aveva deciso di no.
«Temo di non poter venire», dissi.
«Beh, venga lei», ripeté ancora la signora concentrandosi su Gatsby.
Il signor Sloane mormorò qualcosa al suo orecchio.
Capitolo Sesto
131
«Non faremo tardi se partiamo adesso», insisté lei a voce alta.
«Non ho un cavallo», disse Gatsby. «Andavo a cavallo quandero
nellesercito, ma non ho mai comprato un cavallo. Vi dovrò seguire
con la mia auto. Scusatemi soltanto un momento.»
Uscimmo sul portico dove Sloane e la signora iniziarono unintensa
conversazione un po in disparte.
«Mio Dio, credo abbia intenzione di venire», disse Tom «Non
capisce che lei non lo vuole?»
«Lei dice di volerlo.»
«Dà una grande cena e lui non conosce nessuno.» Si accigliò.
«Mi domando dove diavolo abbia incontrato Daisy. Perdio, può
darsi che abbia idee antiquate, ma le donne, secondo me, vanno
un po troppo in giro oggigiorno. Incontrano ogni sorta di matti.»
Improvvisamente il signor Sloane e la signora scesero le scale e
montarono sui loro cavalli.
«Andiamo,» disse il signor Sloane a Tom «siamo in ritardo.
Dobbiamo andare.» E poi rivolto a me: «gli dica che non potevamo
aspettare, per favore.»
Tom e io ci stringemmo le mani, con gli altri scambiai un freddo
cenno; partirono al trotto veloci lungo il viale, scomparendo sotto
le pesanti fronde di agosto proprio mentre Gatsby, col berretto e
un leggero soprabito in mano, si riaffacciava allingresso.
Tom era visibilmente turbato dal fatto che Daisy andasse in giro
da sola, sicché il sabato sera successivo decise di accompagnarla a
una festa di Gatsby. Forse la sua presenza diede una nota particolare
di oppressione alla serata: si staglia, nella mia memoria, rispetto
alle altre feste di quellestate. Cera la stessa gente, o almeno lo
stesso tipo di gente, la stessa profusione di champagne, la stessa
confusa policromia, la stessa eccitazione collettiva, ma anche qualcosa
di spiacevole nellaria, unasprezza diffusa, come mai prima.
O forse mero semplicemente abituato; avevo fatto labitudine ad
Il Grande Gatsby
132
accettare West Egg come un mondo a parte, con i suoi standard
e i suoi grandi personaggi, seconda a nessuno perché non aveva
coscienza di essere così, e ora la stavo riconsiderando attraverso gli
occhi di Daisy. È sempre triste guardare con occhi diversi cose alle
quali, con fatica, ci siamo adattati.
Arrivarono al crepuscolo e mentre passeggiavamo tra centinaia
di ospiti scintillanti, la voce di Daisy intonava nella sua gola mormorii
ingannevoli.
«Queste cose mi esaltano tanto», sussurrò. «Se vuoi baciarmi in
qualsiasi momento della serata, Nick, non hai che da dirmelo e sarò
lieta di accontentarti. Dì solo il mio nome. O mostrami una tessera
verde. Come a dire
ti do il verde
»
«Guardati attorno», suggerì Gatsby.
«Mi sto guardando attorno. È meraviglioso
»
«Vedrai i volti di molte persone delle quali hai sentito parlare.»
Gli occhi arroganti di Tom scrutavano la folla.
«Non usciamo spesso», disse. «Riflettevo sul fatto che non conosco
nessuno, qui.»
«Forse conoscete quella signora.» Gatsby indicò una meravigliosa
orchidea di donna, a malapena umana, che sedeva statuaria sotto
un susino bianco. Tom e Daisy la osservarono con quella peculiare
espressione surreale che si dipinge sul volto di chi riconosce una
celebrità del cinema fino a quel momento nullaltro che un fantasma.
«È bellissima», disse Daisy.
«Luomo chino su di lei è il suo regista.»
Li accompagnò cerimoniosamente da un gruppo allaltro:
«La signora Buchanan... Il signor Buchanan...» dopo un istante
di esitazione aggiungeva: «...il giocatore di polo.»
«Oh no,» obiettava Tom veloce, «Non io, di certo.»
Ma evidentemente il suono di quelle parole piaceva a Gatsby
per cui Tom rimase il giocatore di polo per tutta la sera.
Capitolo Sesto
133
«Non ho mai incontrato tante celebrità!» esclamò Daisy. «Simpatico
quello lì come si chiamava? con quella specie di naso blu.»
Gatsby lo identificò aggiungendo che era un piccolo produttore.
«Beh, ad ogni modo mè simpatico.»
«Preferirei non essere il giocatore di polo» disse Tom amabilmente,
«Mi piacerebbe osservare tutta questa gente famosa ed essere
in... in incognito.»
Daisy e Gatsby ballarono. Ricordo che fui colpito dal suo aggraziato
fox-trot tradizionale non lavevo mai visto ballare. Poi
si avviarono a passo lento verso casa mia e sedettero sui gradini
per mezzora mentre, su richiesta di lei, rimasi in giardino a fare la
guardia: nel caso ci fosse un incendio o uninondazione, spiegò
lei o qualsiasi manifestazione di Dio.
Tom ricomparve dal suo oblio mentre ci sedevamo per cenare
insieme. «Vi spiace se vado allaltro tavolo?» disse. «Un tale sta
dicendo delle cose buffe.»
«Vai pure», rispose Daisy allegra «e se vuoi prendere nota di
qualche indirizzo, eccoti la mia piccola matita dorata
» Dopo un
po si guardò attorno e mi disse che la ragazza era comune ma
carina, e io capii che, a parte la mezzora in cui era rimasta da sola
con Gatsby, non sera divertita granché.
Eravamo a un tavolo di persone abbastanza alticce. Era colpa
mia: Gatsby era stato chiamato al telefono e, soltanto due settimane
prima, mero intrattenuto piacevolmente con quella stessa gente.
Ma ciò che mi aveva svagato allora ora appariva quanto meno
spiacevole.
«Come sta, signorina Baedeker?»
La ragazza a cui fu rivolta la domanda, stava tentando senza
successo di abbandonarsi sulla mia spalla. Interpellata, si risvegliò
e aprì gli occhi.
«Cosa?»
Il Grande Gatsby
134
Una donna grossa e letargica, che aveva esortato Daisy a giocare
con lei a golf al circolo locale lindomani, prese le difese della signorina
Baedeker:
«Oh, ora sta bene. Quando manda giù cinque o sei cocktail, urla
sempre in quel modo. Lo dico io che dovrebbe smetterla.»
«Ma io lho smessa», affermò cupamente laccusata.
«Ti abbiamo sentita urlare, così ho detto al dottor Civet: Cè
qualcuno che ha bisogno del suo aiuto, dottore.»
«Le è molto riconoscente» disse un altro amico, senza gratitudine.
«Ma le ha bagnato tutto il vestito tuffandole la testa nella
fontana.»
«Se cè una cosa che odio è quando mi tengono la testa nella
fontana», mormorò la signorina Baedeker. «Una volta, in New Jersey,
a momenti mi affogavano.»
«Allora dovrebbe smetterla», si oppose il dottor Civet.
«Si faccia i fatti suoi!» urlò la signorina Baedeker violentemente.
«Le sue mani tremano. Non permetterei mai che mi operasse!»
Era proprio così. Perlomeno lultima cosa che ricordo fu che
mi alzai con Daisy per andare a guardare il regista con la sua stella.
Erano ancora sotto il susino bianco e i loro volti si sfioravano quasi,
li separava soltanto un timido raggio di luna. Mi ritrovai a pensare
che aveva impiegato tutta la serata per chinarsi lentamente su di lei
e raggiungere quella vicinanza e mentre li osservavo vidi che avanzò
di un ultimo grado e le baciò la guancia.
«Mi piace», disse Daisy «la trovo adorabile.»
Ma tutto il resto le dava fastidio e senza appello poiché non si
trattava di un atteggiamento, ma di unemozione. Era scioccata da
West Egg, questo luogo stravagante che Broadway aveva creato
al di sopra di un villaggio di pescatori di Long Island; scioccata dal
suo rozzo vigore, ribollente sotto i vecchi eufemismi, e da un destino
prepotente che incanalava come mandrie i suoi abitanti lungo
Capitolo Sesto
135
una scorciatoia dal nulla al nulla. Vedeva qualcosa di spaventoso in
quella stessa semplicità che non riusciva a capire.
Sedetti sui gradini con loro, mentre aspettavano la vettura. Era
buio: di fronte a noi soltanto dieci piedi quadrati di luce uscivano
dalla porta illuminata ed esplodevano nel tenero mattino nero.
Ogni tanto unombra si muoveva sulla tenda di uno spogliatoio
cedendo il passo ad unaltra e poi a unindefinita processione di
ombre, che si rifacevano il trucco e simbellettavano di fronte ad
uno specchio invisibile.
«Ad ogni modo, chi è questo Gatsby?» domandò Tom improvvisamente.
«Qualche grande contrabbandiere?»
«Dove lhai sentita questa?» chiesi.
«Non lho sentita. Limmagino. Un sacco di questi nuovi ricchi
non sono altro che grandi contrabbandieri, lo sai.»
«Non Gatsby», tagliai corto.
Rimase in silenzio per qualche istante. La ghiaia del viale scricchiolava
sotto i suoi piedi.
«Beh, certamente si deve essere dato da fare per mettere su questo
serraglio.»
La brezza smosse il collo di pelliccia di Daisy, simile ad una grigia
foschia.
«Per lo meno sono più interessanti della gente che conosciamo»,
disse lei in un impeto.
«Non mi sembravi tanto interessata.»
«Beh, lo ero.»
Tom rise e si voltò verso me.
«Hai notato la faccia di Daisy quando quella ragazza le ha chiesto
di metterla sotto una doccia fredda?»
Daisy cominciò a canticchiare seguendo la musica in un roco sussurro
ritmico, tirando fuori un significato da ogni parola che mai aveva
avuto e non avrebbe avuto più. Quando la melodia salì di tono, la
Il Grande Gatsby
136
sua voce crebbe dolcemente, seguendola quasi come un contralto, e
ogni nota riversò nellaria un po della sua calda magia umana.
«Molte persone vengono senza essere state invitate,» disse improvvisamente.
«Quella ragazza non era stata invitata. Loro semplicemente
simpongono e lui è troppo cortese per cacciarli.»
«Mi piacerebbe sapere chi è e di cosa si occupa,» insisté Tom.
«farò di tutto per scoprirlo.»
«Te lo dico io, ora,» rispose lei. «Possedeva alcuni drugstore, un
sacco di drugstore. Li aveva messi su da solo.»
La lenta limousine giunse risalendo il viale.
«Buonanotte, Nick,» disse Daisy.
Il suo sguardo mi abbandonò per mirare verso la parte più alta
ed illuminata dei gradini dove la musica di Three oClock in the
Morning, un piccolo valzer di quellanno, grazioso e triste, giungeva
attraverso la porta aperta. Dopo tutto, nella grande apatia delle
feste di Gatsby, cerano dei momenti romantici che erano completamente
ignoti al suo mondo. Cosa cera in quella musica che
sembrava la richiamasse indietro? Cosa sarebbe accaduto ora, in
quelle ore confuse ed imprevedibili? Forse sarebbe arrivata unospite
incredibile, un personaggio rarissimo di cui stupirsi, una fanciulla
autenticamente radiosa che con la freschezza di uno sguardo
a Gatsby, nellistante di un magico incontro, avrebbe annullato
quei cinque anni di devozione assoluta.
Rimasi fino a notte fonda. Gatsby mi chiese di restare finché
non fosse stato più libero ed io mi attardai in giardino finché linevitabile
gruppetto della nuotata notturna non rientrò di corsa,
infreddolito ed euforico, dalla spiaggia scura e si spensero le luci
nelle stanze degli ospiti al piano di sopra. Quando scese i gradini,
alla fine, la pelle abbronzata del suo viso era insolitamente tesa; aveva
gli occhi lucidi e stanchi.
«Non le è piaciuto», disse quasi subito.
Capitolo Sesto
137
«Al contrario.»
«Non le è piaciuto», insisté lui. «Non sè divertita.»
Era silenzioso ed io facevo congetture sulla sua impalpabile depressione.
«Mi sento molto lontano da lei,» disse. «È difficile farle capire.»
«Intendi il ballo?»
«Il ballo?» Scartò tutti i balli che aveva dato con uno schiocco di
dita. «Vecchio mio, i balli non sono importanti.»
Pretendeva che Daisy andasse da Tom e gli dicesse nientemeno:
Non ti ho mai amato. Dopo aver cancellato tre anni con questa
frase, avrebbero potuto decidere quali fossero le misure più pratiche
da prendersi. Una delle quali sarebbe stata che, quando lei fosse
tornata libera, loro sarebbero rientrati a Louisville per sposarsi
nella sua casa proprio come cinque anni prima.
«E lei non capisce», disse. «Prima mi seguiva. Passavamo ore e
ore
»
Troncò e cominciò a passeggiare su e giù per un sentiero desolato,
di bucce di frutta, carte e fiori calpestati.
«Non le chiederei troppo», rischiai. «Non si può ripetere il passato.»
«Non si può ripetere il passato?» gridò incredulo. «Perché?
Certo che si può!»
Si guardò attorno come un selvaggio, quasi che il passato fosse
lì in agguato, nellombra della sua casa, appena fuori dalla portata
delle sue mani.
«Sistemerò tutto proprio comera prima,» disse scuotendo il
capo con determinazione. «Lei vedrà.»
Parlò a lungo del passato ed io immaginai che volesse recuperare
qualcosa, qualche idea di se stesso forse, che si riallacciava
allamore per Daisy. La sua vita era stata confusa e disordinata da
allora, ma se avesse potuto tornare al punto di partenza e ricominciare
lentamente daccapo, avrebbe potuto capire cosera
Il Grande Gatsby
138
Una notte dautunno, cinque anni prima, passeggiavano lungo
una strada mentre cadevano le foglie ed erano giunti in un luogo
dove non cerano alberi e il marciapiede era bianco come il chiaro
di luna. Dun tratto serano fermati e voltandosi luno verso laltra,
avevano preso a guardarsi. Era una notte fresca, con quella misteriosa
eccitazione che si sviluppa nei due cambi di stagione dellanno.
Le luci fioche nelle case ronzavano nelloscurità e tra le stelle
cera un vago fruscio e un bisbiglio. Con la coda dellocchio Gatsby
vide che i mattoni del marciapiede formavano, in realtà, una scala
che saliva verso un luogo segreto al di sopra degli alberi; avrebbe
potuto seguirla se fosse stato solo e, una volta giunto lì, succhiare il
capezzolo della vita per bere con voluttà lincomparabile latte della
meraviglia.
Il suo cuore batteva sempre più forte mentre il viso candido di
Daisy si avvicinava al suo. Sapeva che quando lavrebbe baciata,
unendo per sempre le sue ineffabili visioni al respiro delicato di
lei, la sua mente non avrebbe più giocato come quella di Dio. Così
aspettò, ascoltando per un lungo istante il perfetto diapason suonato
su una stella. Poi la baciò. Al tocco delle sue labbra lei sbocciò
come un fiore e lincarnazione fu completa.
Tutto ciò che disse, anche col suo scioccante sentimentalismo,
mi fece tornare in mente qualcosa: un ritmo sfuggente, un frammento
di parole perdute, che avevo ascoltato, da qualche parte,
molto tempo prima. Per un momento una frase tentò di prender
forma nella mia bocca e le labbra si schiusero come quelle di un
muto, quasi fossero impegnate in una dura lotta, trattenute da un
filo di allarme nellaria. Ma non emisero suono e ciò che avevo
quasi ricordato restò inespresso per sempre.
139
Fu quando la curiosità per Gatsby raggiunse lacme che le luci
di casa sua smisero di accendersi, un sabato sera, e col medesimo
mistero che ne aveva accompagnato lavvio, la sua
carriera di Trimalcione giunse alla fine.
Soltanto a poco a poco mi resi conto che le automobili che
imboccavano ansiose il suo viale si fermavano giusto per qualche
istante e poi ripartivano piuttosto deluse. Domandandomi se fosse
malato, landai a cercare; un maggiordomo sconosciuto, dallespressione
scortese, mi guardò di sottecchi dalla porta, sospettoso.
«Il signor Gatsby è malato?»
«Macchè!» Dopo una pausa aggiunse un signore lentamente,
quasi riluttante.
«Non lho visto in giro e mero un po preoccupato. Gli dica che
è venuto a cercarlo il signor Carraway.»
«Chi?» domandò scostante.
«Carraway.»
«Carraway. Va bene, glielo dirò.» Sbatté la porta bruscamente.
La mia finlandese minformò che Gatsby aveva licenziato tutto
il personale di servizio una settimana prima per rimpiazzarlo con
una mezza dozzina di nuovi domestici che non erano soliti recarsi al
villaggio di West Egg per farsi corrompere dai commercianti, ma si
limitavano ad ordinare una modesta quantità di provviste per tele-
Capitolo Settimo
Il Grande Gatsby
140
fono. Il garzone del droghiere riferì che la cucina sembrava un porcile,
e lopinione generale degli abitanti del villaggio era che questi
nuovi arrivati non fossero esattamente dei domestici.
Il giorno dopo Gatsby mi chiamò al telefono.
«Stai per partire?» gli chiesi.
«No, vecchio mio.»
«Ho sentito che hai licenziato tutto il personale di servizio.»
«Volevo gente che non passasse il tempo a spettegolare. Daisy
viene spesso... di pomeriggio.»
Cosicché lintero caravanserraglio era crollato come un castello
di carte per via della disapprovazione negli occhi lei.
«Si tratta di persone che Wolfshiem voleva sistemare. Sono tutti
fratelli e sorelle. Gestivano un piccolo albergo.»
«Capisco.»
Mi chiamava su richiesta di Daisy volevo andare a pranzo da
lei lindomani? La signorina Baker ci sarebbe andata. Mezzora
dopo telefonò Daisy stessa e sembrò sollevata nel sapere che sarei
andato. Stava per succedere qualcosa. E ancora non riuscivo a credere
che avrebbero scelto questa occasione per la scena, in particolare
per quella piuttosto straziante che Gatsby aveva abbozzato
in giardino.
Il giorno successivo fu rovente, sarà stato uno degli ultimi dellestate,
certamente il più caldo. Quando il mio treno emerse dal
tunnel alla luce del sole, soltanto i fischietti della National Biscuit
Company rompevano il ribollente silenzio del mezzogiorno. I sedili
di paglia della vettura sembravano prossimi alla combustione; la
donna che mi sedeva accanto sudò delicatamente per un po nella
sua camicetta e poi, quando il giornale cominciò a inumidirsi sotto
le sue dita, si annullò disperatamente nella profonda calura con un
lamento desolato. Il suo portamonete cadde a terra.
«Oh, no!» rantolò lei.
Capitolo Settimo
141
Lo raccolsi con un logorante piegamento e glielo porsi, tenendolo
a debita distanza e per un angolo, a indicare che non avevo alcuna
intenzione al riguardo ma tutti i presenti, compresa la signora, ebbero
qualche sospetto su di me lo stesso.
«Caldo!» disse il controllore ai volti abituali. «Che tempo! Caldo!
Caldo! Caldo! Non è abbastanza per voi? Fa caldo? Fa
»
Il biglietto mi fu restituito con una macchia scura dalla sua mano.
A chi poteva interessare, in quella calura, di chi fossero le labbra
ardenti che aveva baciato, quale testa avesse inumidito la tasca del
pigiama sul suo cuore!
...Dallingresso della casa dei Buchanan soffiava un debole venticello
che portò il suono del telefono verso Gatsby e me, in attesa alla porta.
Il cadavere del padrone! ruggì il maggiordomo nella cornetta.
Mi dispiace, signora, ma non possiamo ricomporlo fa troppo
caldo per toccarlo, questoggi.
Ciò che disse in realtà fu: «Si
Si
Ora vedo.»
Riagganciò il ricevitore e ci venne incontro, un po lucido di
sudore, per prenderci i cappelli di paglia.
«La signora vi aspetta nel salone!» esclamò, indicando inutilmente
la direzione. In quella calura ogni gesto inutile era un affronto
alla comune riserva di vita.
La stanza, adeguatamente ombreggiata con delle tende da sole,
era scura e fresca. Daisy e Jordan, distese su un enorme divano
come divinità dargento, trattenevano i loro vestiti bianchi dalla
ronzante brezza dei ventilatori.
«Non riusciamo a muoverci», dissero allunisono.
Le dita di Jordan, incipriate di bianco sullabbronzatura, indugiarono
per qualche istante tra le mie.
«E il signor Thomas Buchanan, latleta?» chiesi.
Contemporaneamente sentii la sua voce, roca, attenuata, secca,
al telefono dellingresso.
Il Grande Gatsby
142
Gatsby rimaneva al centro del tappeto cremisi e si guardava attorno
con occhi affascinati. Daisy losservava e sorrideva con la sua
dolce, eccitante risata; un leggero sbuffo di cipria le si sollevò dal
petto e si diffuse nellaria.
«Pare,» sussurrò Jordan «che ci sia la ragazza di Tom al telefono.»
Restammo in silenzio. La voce nellatrio si alzò di tono e assunse
unaria seccata. «Molto bene dunque, non ti venderò più lauto
Non ti devo niente
E il fatto che mi abbia infastidito a ora di
pranzo, non lo tollero proprio!»
«Tiene giù il ricevitore», disse Daisy cinicamente.
«No, non è vero», la rassicurai. «Si tratta di un affare reale. Ne
sono al corrente per puro caso.»
Tom spalancò la porta, ne ostruì per qualche istante il vano col
suo corpo massiccio, quindi entrò veloce nella stanza.
«Signor Gatsby!» Gli stese la sua grossa, larga mano con disprezzo
ben dissimulato. «Sono lieto di rivederla
Nick
»
«Preparaci qualcosa di fresco», esclamò Daisy.
Quando lui uscì nuovamente dalla stanza, lei si alzò e andò verso
Gatsby tirandogli giù il viso per baciarlo sulla bocca.
«Lo sai che ti amo», mormorò.
«Dimentichi che qui cè una signora», disse Jordan.
Daisy si guardò attorno dubbiosa.
«E tu bacia Nick.»
«Che ragazza gretta e volgare!»
«Non mimporta!» esclamò Daisy e cominciò a caricare di legna il camino.
Poi si ricordò del caldo e sedette afflitta sul divano proprio mentre
una balia, fresca di bucato, entrava tenendo per mano una bambina.
«Te-so-retto bel-lo», canticchiò lei tendendo le braccia. «Vieni
dalla mamma che ti vuole tanto bene.»
La bambina, lasciata la balia, corse attraverso la stanza per gettarsi
intimidita tra le pieghe del vestito della madre.
Capitolo Settimo
143
«Il te-so-retto bel-lo! Tua madre tha messo un po di cipria su
questi capelli così belli biondi? Alzati ora, e dì Come-state?»
Gatsby ed io ci chinammo a toccare la piccola manina riluttante.
Poi lui prese a guardare la bambina con sorpresa. Credo che non
avesse mai realmente creduto nella sua esistenza.
«Mi hanno vestita prima del pranzo», disse la bambina voltandosi
impaziente verso Daisy.
«Perché la mamma ti voleva far vedere.» Il suo viso si chinò
nellunica piega del piccolo collo bianco. «Sei un sogno, tu. Sei
proprio un piccolo sogno.»
«Si», ammise con calma la bimba. «Zia Jordan anche è vestita
di bianco.»
«Ti piacciono gli amici di mamma?» Daisy la fece voltare tuttattorno,
così vide Gatsby. «Non pensi che siano davvero carini?»
«Dovè papà?»
«Non somiglia al padre», disse Daisy. «È identica a me. Ha preso
i miei capelli e lo stesso disegno del viso.»
Tornò a sedere sul divano. La balia fece un passo avanti e stese
la sua mano.
«Vieni, Pammy.»
«Ciao, cuoricino!»
Voltandosi con uno sguardo riluttante, la bambina beneducata prese
la mano della balia e fu condotta fuori della porta proprio mentre Tom
rientrava preceduto da quattro gin che tintinnavano pieni di ghiaccio.
Gatsby prese il suo drink.
«Sembrano davvero invitanti», disse con visibile tensione.
Bevemmo in lunghi, avidi sorsi.
«Ho letto, da qualche parte, che il sole si sta facendo ogni anno
più caldo», disse Tom in modo cordiale. «Pare che molto presto la
terra cadrà sul sole oh, aspettate un attimo... è esattamente il
contrario... il sole diventa ogni anno più freddo.»
Il Grande Gatsby
144
«Andiamo fuori», suggerì a Gatsby «vorrei farle vedere la proprietà.»
Uscii con loro in veranda. Sul verde Stretto ristagnante nella
calura, una piccola vela procedeva lenta verso il mare aperto più
fresco. Gli occhi di Gatsby la seguirono per qualche istante; alzò
una mano e indicò al di là della baia.
«Sto proprio di fronte a voi.»
«Già.»
I nostri occhi si alzarono sui roseti, il prato caldo e le alghe rigettate
a riva dalla canicola. Lentamente la vela bianca della barca
si mosse lungo il fresco limite blu dellorizzonte. Avanzando verso
loceano senza limiti e le tante isole beate.
«È un grande sport», disse Tom annuendo. «Mi piacerebbe essere
là con lui per qualche ora.»
Pranzammo nel soggiorno debitamente oscurato contro la calura
e mandammo giù, insieme alla birra fresca, unallegria nervosa.
«Cosa faremo questo pomeriggio,» esclamò Daisy «e domani, e
i prossimi trentanni?»
«Non essere così triste», disse Jordan. «La vita riparte ogni volta
con laria frizzante dellautunno.»
«Ma fa così caldo», insisté Daisy, quasi piangendo «ed è tutto
così confuso. Andiamo in città!»
La sua voce lottò nella calura battendosi con essa, dando a
questinsensatezza una qualche forma.
«Ho sentito in giro di gente che ha ricavato un garage da una
stalla,» stava dicendo Tom a Gatsby «ma sono il primo ad aver
ricavato una stalla da un garage.»
«Chi vuole andare in città?» chiese Daisy con insistenza. Gli occhi di
Gatsby fluttuarono verso di lei. «Ah», esclamò lei «Sembri così fresco!»
I loro sguardi sincrociarono e stettero a fissarsi lun laltra isolandosi.
Con uno sforzo lei li riabbassò sul tavolo.
«Hai sempre unaria così fresca», ripeté lei.
Capitolo Settimo
145
Lei gli aveva detto che lo amava, e Tom Buchanan se nera accorto.
Era sbigottito. Aprì leggermente la bocca, guardò Gatsby
e poi di nuovo Daisy come se in lei soltanto adesso riconoscesse
qualcuno incontrato tanto tempo prima.
«Sembri la pubblicità di quel tale», continuò innocentemente.
«Ti ricordi la pubblicità di quelluomo...»
«Va bene», linterruppe Tom brusco «Sono perfettamente daccordo
ad andare in città. Dai... andiamo tutti in città.»
Si alzò con gli occhi che continuavano a mandare lampi verso
Gatsby e sua moglie. Nessuno si mosse.
«Andiamo!» La sua collera sincrinò un tantino. «Qual è il problema?
Se vogliamo andare in città, partiamo.»
La mano, tremando nello sforzo dellautocontrollo, gli portò
alle labbra ciò che restava del suo bicchiere di birra. La voce di
Daisy ci fece alzare e uscire sullardente viale ghiaioso.
«Andiamo subito?» obiettò lei. «Vi va? Non sarebbe il caso di
fermarsi a fumare una sigaretta, prima?»
«Abbiamo fumato per tutto il pranzo.»
«Oh, lasciaci divertire», limplorò lei. «Fa troppo caldo per innervosirsi.
»
Lui non rispose.
«Fa come ti pare», disse lei. «Vieni, Jordan.»
Andarono di sopra per prepararsi mentre noi tre uomini restammo
lì a schiacciare la ghiaia calda sotto le scarpe. Una falce argentea
di luna si stagliava già nel cielo a ovest. Gatsby tentò davviare una
conversazione, ma cambiò idea, non prima però che Tom si fosse
voltato verso di lui per guardarlo in con aria ansiosa.
«Le scuderie le ha qui?» chiese Gatsby sforzandosi.
«Circa un quarto di miglio più giù, lungo il viale.»
«Oh.»
Una pausa.
Il Grande Gatsby
146
«Non capisco questo capriccio di andare in città,» proruppe
Tom adirato. «Le donne si mettono in testa certe idee...»
«Ci portiamo qualcosa da bere?» chiese Daisy da una finestra
del piano di sopra.
«Porterò del whisky», rispose Tom. Rientrò.
Gatsby si voltò verso me, rigidamente:
«Non riesco a dire niente in casa sua, vecchio mio.»
«Lei ha una voce indiscreta», osservai. «È piena di...»
Esitai.
«La sua voce è piena di soldi», disse improvvisamente.
Era così. Non lavevo capito prima. Era piena di soldi: questo
era linestimabile fascino che si alzava e ricadeva in essa, quel suo
scampanellio, quel suono di cimbali... Lassù nel palazzo bianco, la
figlia del re, la fanciulla dorata...
Tom uscì di casa con una bottiglia da un quarto in un tovagliolo,
seguito da Daisy e Jordan che indossavano delle piccole cuffie di
stoffa metallica e con dei leggeri soprabiti al braccio.
«Andiamo con la mia auto?» suggerì Gatsby. Tastò la pelle verde
dei sedili, rovente. «Avrei dovuto lasciarla allombra.»
«Ha il cambio standard?» domandò Tom.
«Si.»
«Beh, prenda il mio coupé e me la lasci guidare fino in città.»
La proposta non piacque molto a Gatsby.
«Non credo ci sia tanta benzina», obiettò.
«Ce nè a sufficienza», disse Tom impetuosamente. Guardò lindicatore.
«E se dovesse finire, mi potrei fermare a un drugstore. Si
può comprare di tutto al giorno doggi nei drugstore.»
Una pausa seguì questa sottolineatura solo in apparenza inutile.
Daisy guardò Tom accigliandosi e unindefinibile espressione, al
tempo stesso insolita eppur vagamente riconoscibile, come se me
lavessero descritta a parole, passò sul volto di Gatsby.
Capitolo Settimo
147
«Andiamo, Daisy», disse Tom spingendola verso lauto di Gatsby.
«Ti farò fare un giro in questo carrozzone da circo.»
Aprì la portiera ma lei si svincolò dalle sue braccia.
«Portaci Nick e Jordan. Noi ti seguiremo col coupé.»
Raggiunse Gatsby toccando la sua giacca con la mano. Jordan,
Tom ed io prendemmo posto sui sedili anteriori dellauto di Gatsby.
Tom azionò un po impacciato il cambio e fummo proiettati
nella calura opprimente lasciandoceli alle spalle, fuori di vista.
«Hai visto?» domandò Tom.
«Visto cosa?»
Mi trafisse con uno sguardo penetrante, realizzando che Jordan
ed io sapevamo tutto da un bel po.
«Mi credete uno scemo completo, non è vero?» suggerì. «Forse
lo sono, ma io ho
una sorta di sesto senso, alle volte, che mi dice
cosa fare. Può darsi che non ci crediate, ma la scienza
»
Sinterruppe. Limmediata contingenza ebbe il sopravvento su
di lui fermandolo sullorlo dellabisso teoretico.
«Ho fatto una piccola indagine su questuomo», continuò. «Sarei
potuto andare più in profondità, se avessi saputo
»
«Intendi dire che sei stato da una medium?» chiese Jordan scherzosamente.
«Cosa?» Confuso, ci guardò mentre ridevamo. «Una medium?»
«Per Gatsby.»
«Per Gatsby! No, per niente. Ho detto che ho fatto una piccola
indagine sul suo passato.»
«E hai scoperto che è stato a Oxford», disse Jordan gentilmente.
«A Oxford!» Era incredulo. «Al diavolo! Se ne va in giro vestito
di rosa!»
«Eppure è stato a Oxford.»
«Oxford, New Mexico,» grugnì Tom sprezzante «o qualcosa del
genere.»
Il Grande Gatsby
148
«Ascolta, Tom. Se sei così snob, perché lhai invitato a pranzo?»
chiese Jordan irritata.
«Daisy lha invitato; lo conosceva da prima che ci sposassimo
Dio sa dove!»
Eravamo tutti irritabili ora con i fumi della birra e, consapevoli
di ciò, proseguimmo per un po in silenzio. Poi, quando gli occhi
del dottor T.J. Eckleburg furono in vista in fondo alla strada, mi
ricordai della preoccupazione di Gatsby per la benzina.
«Ne abbiamo abbastanza per arrivare in città», disse Tom.
«Ma cè unofficina qui vicino», obiettò Jordan. «Non mi va di
rimanere a piedi in questassurda calura.»
Tom azionò entrambi i freni spazientito e ci fermammo bruscamente
in una nuvola di polvere sotto linsegna di Wilson. Qualche
istante dopo dallinterno del locale emerse il proprietario e fissò
lauto con occhi febbricitanti.
«Ci serve della benzina!» ordinò Tom duramente. «Per cosa credi
che ci siamo fermati? Per
per ammirare il paesaggio?»
«Sono malato», disse Wilson senza muoversi. «Sono stato male
tutto il giorno.»
«Coshai?»
«Mi sento a pezzi.»
«Beh, posso fare da me?» domandò Tom. «Mi sembrava che
stessi abbastanza bene al telefono.»
Con uno sforzo Wilson abbandonò lombra staccandosi dal sostegno
della porta e ansimando forte svitò il tappo del serbatoio.
Alla luce del sole la sua faccia era verde.
«Non volevo interrompere il suo pranzo», disse. «Ma ho bisogno
di soldi, purtroppo, e mi chiedevo che pensava di fare con la
sua vecchia auto.»
«Ti piace questaltra?» domandò Tom. «Lho comprata la scorsa
settimana.»
Capitolo Settimo
149
«È un bel giallo», disse Wilson mentre si sforzava alla pompa.
«Ti andrebbe di comprarla?»
«Grande affare», rise debolmente. «No... ma potrei recuperare
qualcosa dallaltra.»
«A cosa ti servono i soldi, così allimprovviso?»
«Sono rimasto qui troppo a lungo. Voglio andare via. Mia moglie
ed io vogliamo andare nel West.»
«Tua moglie è daccordo!?» esclamò Tom sorpreso.
«Continua a parlarne da dieci anni.» Si poggiò per qualche
istante alla pompa proteggendosi gli occhi con la mano. «E ora lei
verrà, che lo voglia o no. La porterò via.»
Il coupé ci apparve per un istante in un turbine di polvere e un
guizzo di mani che salutavano.
«Quanto ti devo?» tagliò corto Tom.
«Mi sono accorto di qualcosa di strano negli ultimi due giorni»,
osservò Wilson. «Per questo voglio andare via. Per questo lho infastidita
per lauto.»
«Quanto ti devo?»
«Un dollaro e venti.»
Limplacabile calura battente iniziava a stordirmi e passai un
brutto momento prima di realizzare che i suoi sospetti fossero ancora
lontani da Tom. Aveva scoperto che Myrtle viveva una sorta
di vita parallela in un altro contesto e lo shock laveva reso debole
fisicamente. Fissai lui e poi Tom, che aveva fatto una scoperta analoga
meno di mezzora prima, e mi trovai a riflettere sul fatto che
non ci sono differenze tra gli uomini, per intelligenza o razza, profonde
quanto quella tra ammalati e sani. Wilson stava così male da
sembrare colpevole, imperdonabilmente colpevole, quasi avesse
appena reso madre una povera ragazza.
«Farò in modo che tu abbia quellauto», disse Tom. «Te la manderò
domani pomeriggio.»
Il Grande Gatsby
150
Quella zona era sempre vagamente inquietante, anche nel pieno
della luce del pomeriggio, e ora voltai il capo come se avessi avvertito
qualcosa alle mie spalle. Su quel mucchio di ceneri vigilavano
gli occhi enormi del dottor T.J. Eckleburg ma, mi accorsi dopo un
istante, altri occhi ci stavano osservando con particolare intensità
da non più di venti piedi.
In una delle finestre sopra il garage la tendina era stata scostata
un po di lato e Myrtle Wilson stava sbirciando verso lauto. Era così
concentrata da non accorgersi di essere a sua volta osservata e, luna
dopo laltra, le emozioni le attraversavano il viso come le immagini in
una pellicola girata al rallentatore. La sua espressione era stranamente
familiare: unespressione che avevo visto spesso sul volto delle donne,
ma su quello di Myrtle Wilson sembrava vana e inesplicabile, finché
non compresi che i suoi occhi, sbarrati dal terrore della gelosia, non
erano fissi su Tom, ma su Jordan Baker che credeva fosse sua moglie.
Non cè confusione peggiore di quella degli animi semplici;
mentre proseguivamo Tom stava provando la calda frusta del panico.
Sua moglie e la sua amante, fino a unora prima sicure e inviolate,
stavano precipitosamente scivolando fuori dal suo controllo.
Listinto gli faceva premere sullacceleratore con il doppio proposito
di raggiungere Daisy e di lasciarsi Wilson alle spalle, così corremmo
verso Astoria a cinquanta miglia allora prima di avvistare,
quasi allaltezza della ragnatela di travi della sopraelevata, il coupé
blu che marciava in tutta calma.
«Quei grandi cinema verso la Cinquantesima sono così belli», suggerì
Jordan. «Amo New York nei pomeriggi destate, quando tutti
sono fuori. Cè qualcosa di molto sensuale, matura al punto giusto,
come se ogni sorta di frutto stravagante stesse per caderti tra le mani.»
La parola sensuale ebbe leffetto di accrescere ulteriormente
linquietudine di Tom, ma prima che potesse inventarsi una protesta,
il coupé giunse a uno stop e Daisy ci fece segno di affiancarci.
Capitolo Settimo
151
«Dove andiamo?» esclamò.
«Che ne dici dei cinema?»
«Fa troppo caldo», protestò lei. «Andate voi. Noi faremo un
giro e ci incontreremo più tardi.» Con uno sforzo si rese più briosa
«ci rivedremo a qualche angolo. Io sarò luomo che fuma due
sigarette.»
«Non possiamo discuterne qui», disse Tom con impazienza mentre
un camion emise un sibilo dimprecazione dietro di noi. «Seguitemi
giù a Central Park, di fronte al Plaza.»
Si voltò diverse volte per guardare indietro, verso la loro auto;
se il traffico li rallentava, anche lui frenava finché non tornavano
in vista. Credo avesse paura che svoltassero in una strada laterale e
quindi fuori dalla sua vita per sempre.
Ma non lo fecero. E tutti noi prendemmo la più inspiegabile
delle decisioni, affittando il salotto di una suite al Plaza Hotel.
La prolungata e tumultuosa discussione che si concluse col radunarci
in quella stanza, ora mi sfugge, ma ho un nitido ricordo
fisico: nel corso della stessa, le mutande presero ad arrampicarmisi
come un serpente umido lungo le gambe mentre intermittenti perline
di sudore mi scorrevano giù per la schiena. Lidea aveva avuto
origine dalla proposta di Daisy di fittare cinque stanze da bagno
per immergerci nelle vasche riempite dacqua fredda, poi aveva
preso una forma più tangibile nel desiderio di un luogo dove poter
bere una menta ghiacciata. Ciascuno di noi ripeté varie volte
che si trattava di una folle idea; parlammo tutti insieme ad un
frastornato commesso e pensammo, o fingemmo di farlo, che ci
stessimo davvero divertendo
La stanza era grande e opprimente e, sebbene fossero le quattro,
aprendo le finestre giungeva solo una calda folata dai cespugli
roventi del parco. Daisy si pose davanti allo specchio dandoci le
spalle mentre si ricomponeva i capelli.
Il Grande Gatsby
152
«È una magnifica suite», sussurrò Jordan rispettosamente, tutti
risero.
«Aprite unaltra finestra», ordinò Daisy senza voltarsi.
«Non ce ne sono altre.»
«Beh, dovremmo telefonare per unascia
»
«Lunica cosa da fare è dimenticare il caldo», disse Tom con impazienza.
«Lo rendi dieci volte peggiore continuando a curartene.»
Srotolò la bottiglia di whisky dal tovagliolo e la pose sul tavolo.
«Perché non la lascia in pace, vecchio mio?» osservò Gatsby. «È
stato lei a voler venire in città.»
Ci fu un momento di silenzio. Lelenco del telefono scivolò dal
gancio e cadde sul pavimento, dopodiché Jordan sussurrò «Scusatemi
» ma a questo punto nessuno rise.
«Lo raccolgo io», mi offrii.
«Lho preso io.» Gatsby esaminò la cordicella spezzata, borbottò
Hum! in maniera interessata poggiando lelenco su una sedia.
«È una gran bella espressione, non è vero?» disse Tom aspro.
«Cosa?»
«Tutti questi accidenti di vecchio mio. Da dove lha ripescato?»
«Ora sta a sentire, Tom,» disse Daisy voltandosi dallo specchio
«se hai intenzione di fare dei commenti personali, non resterò qui
un minuto di più. Chiama e ordina del ghiaccio per la menta.»
Mentre Tom prendeva il ricevitore, la calura compressa esplose
in suoni e udimmo i poderosi accordi della marcia nuziale di Mendelssohn
dalla sala da ballo disotto.
«Immagina di sposare qualcuno con questo caldo!» esclamò
Jordan con orrore.
«Eppure... io mi sposai alla metà di giugno,» ricordò Daisy «Louisville
in giugno! Qualcuno svenne. Chi fu a svenire, Tom?»
«Biloxi», tagliò corto lui. «Un uomo di nome Biloxi. Blocks Biloxi,
fabbricava blocchi proprio così e veniva da Biloxi, Tennessee.»
Capitolo Settimo
153
«Lo portarono in casa mia,» aggiunse Jordan «poiché abitavamo
di fianco alla chiesa. E rimase tre settimane, finché papà non gli
disse che doveva andarsene. Il giorno dopo la sua partenza, papà
morì.» Qualche istante dopo aggiunse, quasi fosse suonata irriverente,
«non cera nessuna connessione.»
«Conoscevo un certo Bill Biloxi di Memphis», osservai.
«Era suo cugino. Mi raccontò lintera storia della sua famiglia prima
di ripartire. Mi diede un putter di alluminio che uso ancora oggi.»
La musica sfumò mentre la cerimonia aveva inizio, ora una lunga
esultanza fluttuava allinterno dalla finestra, seguita da intermittenti
gridolini di Siii-iii-iii! e infine da unesplosione di jazz quando
ebbero inizio le danze.
«Stiamo invecchiando», disse Daisy. «Se fossimo stati giovani, ci
saremmo alzati e avremmo ballato.»
«Rammenta Biloxi», Jordan lammonì. «Dove lavevi conosciuto,
Tom?»
«Biloxi?» si concentrò con uno sforzo. «Non lo conoscevo. Era
un amico di Daisy.»
«Non è vero», negò lei. «Non lavevo mai visto prima. Venne
con la carrozza privata.»
«Beh, disse che ti conosceva. Disse che era cresciuto a Louisville.
Asa Bird lo portò in giro allultimo minuto e ci chiese se cera
posto per lui.»
Jordan rise.
«Stava probabilmente scroccando un passaggio per casa. Mi disse
che era il presidente della vostra classe a Yale.»
Tom ed io ci guardammo senza espressione.
«Biloxi?»
«Innanzitutto, non avevamo alcun presidente
»
Il piede di Gatsby tamburellava sul pavimento senza tatto e Tom
gli lanciò unocchiataccia.
Il Grande Gatsby
154
«A proposito, signor Gatsby, mè parso di sentire che lei è stato
a Oxford.»
«Non esattamente.»
«Oh si, ho sentire dire che lei ha studiato a Oxford.»
«Si... ci sono stato.»
Una pausa. Poi la voce di Tom, incredula e ingiuriosa:
«Lei deve esserci stato nello stesso periodo in cui Biloxi andò in
New Haven.»
Unaltra pausa. Un cameriere bussò ed entrò con una granita di
menta e ghiaccio, ma il silenzio non fu interrotto dal suo Grazie
e dal leggero richiudersi della porta. Questo particolare tremendo
doveva essere chiarito perlomeno.
«Le ho detto che ci sono stato», disse Gatsby.
«Lho sentita, ma vorrei sapere quando.»
«Fu nel 1919, ci rimasi soltanto per cinque mesi. È questo il
motivo per cui non posso dire di aver studiato a Oxford.»
Tom si guardò attorno per vedere se stessimo condividendo
la sua incredulità. Ma eravamo tutti con lo sguardo rivolto verso
Gatsby.
«Fu unopportunità concessa ad alcuni ufficiali dopo lArmistizio
», continuò «potevamo andare in qualsiasi università dellInghilterra
o della Francia.»
Mi sarei voluto alzare per dargli una pacca sulla spalla. Attraversavo
uno di quei momenti di completa fiducia in lui, come già in
passato me ne erano capitati.
Daisy si alzò sorridendo delicatamente e savvicinò al tavolo.
«Apri il whisky, Tom» ordinò. «Ora ti preparerò la menta. Almeno
non avrai più quellespressione così stupida
guarda che
menta!»
«Aspettate un istante», scattò Tom «Voglio fare unaltra domanda
al signor Gatsby.»
Capitolo Settimo
155
«La prego», disse Gatsby educatamente.
«Che genere di lite sta cercando di provocare in casa mia, dunque?»
Erano ormai allo scoperto e Gatsby ne era felice.
«Non sta provocando nessuna lite.» Daisy osservava disperatamente
entrambi. «Tu la stai provocando. Per favore cerca di controllarti
un po.»
«Controllarmi!» ripeté Tom incredulo. «Suppongo che lultima
cosa da fare sia tornare a sedersi e lasciare che il Signor Nessun dal
Nulla faccia lamore con tua moglie. Beh, se questa è lidea, non
contate su di me
oggigiorno la gente inizia a farsi beffe della vita
e dellistituto della famiglia per poi gettare tutto a monte; finirà coi
matrimoni misti fra bianchi e negri.»
Accaldato dal suo sproloquio senza senso si vide solo, sullultima
barricata della civilizzazione.
«Siamo tutti bianchi qui», mormorò Jordan.
«Lo so, non sono molto simpatico. Non do grandi feste. Suppongo
che lei abbia voluto fare della sua casa un porcile proprio
per avere un po di amici
nel mondo moderno.»
Furioso comero, come tutti eravamo, avrei voluto ridere ogni
volta che apriva bocca. La conversione, da libertino a bacchettone,
era ormai completa.
«Ho qualcosa da dirle, vecchio mio
» cominciò Gatsby. Ma
Daisy indovinò le sue intenzioni.
«Per favore, no!» interruppe lei disperatamente. «Per favore
torniamocene tutti a casa. Perché non ce ne torniamo a casa?»
«Questa è una buona idea.» Mi alzai. «Andiamo, Tom. Nessuno
vuole un drink?»
«Voglio sapere cosa ha da dirmi il signor Gatsby.»
«Sua moglie non lama», disse Gatsby. «Non lha mai amata. Ama me.»
«Lei deve essere pazzo!» esclamò Tom come un automa.
Gatsby saltò in piedi profondamente agitato.
Il Grande Gatsby
156
«Non lha mai amata, ha capito?» urlò. «Lha sposata soltanto
perché ero povero ed era stanca di aspettarmi. È stato un terribile
errore, ma nel suo cuore non ha mai amato altri che me!»
A questo punto Jordan ed io provammo ad andarcene, ma Tom
e Gatsby insistettero, gareggiando in fermezza, perché rimanessimo
come se nessuno di loro avesse qualcosa da nascondere e fosse per
noi un privilegio prendere parte indirettamente alle loro emozioni.
«Siediti Daisy.» La voce di Tom tentò senza successo una nota
paternalistica. «Che sta succedendo? Voglio sapere tutta la verità.»
«Glielho detto cosa sta succedendo», disse Gatsby. «Succede
da cinque anni... e lei non lo sapeva.»
Tom si voltò bruscamente verso Daisy.
«Hai continuato a vedere questuomo per cinque anni?»
«Non vedere», disse Gatsby. «No, non ci potevamo incontrare.
Ma ciascuno di noi ha amato laltro per tutto questo tempo, vecchio
mio, e lei non lo sapeva. Mi capitava di ridere alle volte
» ma
non cera lombra del sorriso nei suoi occhi, «al solo pensiero che
lei non sapesse.»
«Oh... tutto qui.» Tom giunse le sue grosse dita, come un prete,
e si abbandonò sulla poltrona.
«Lei è pazzo!» esplose. «Non posso parlare di ciò che accadde
cinque anni fa, perché non conoscevo Daisy allora e che io sia
dannato se potessi sapere come le si sia avvicinato a meno di un
miglio senza aver portato la spesa dalla porta sul retro. Ma tutto il
resto è una maledetta menzogna. Daisy mi amava quando mi sposò
e mi ama ancora adesso.»
«No», disse Gatsby scuotendo il capo.
«Certo che è così. Il problema è che ogni tanto lei ha qualche folle
idea nella sua testa e non sa quel che fa.» Annuì saggiamente. «E cè di
più, anchio amo Daisy. Qualche volta faccio baldoria e mi comporto da
stupido, ma torno sempre e nel mio cuore non smetto mai di amarla.»
Capitolo Settimo
157
«Sei ributtante», disse Daisy. Si voltò verso me e la sua voce,
scendendo di unottava, riempì la stanza con un disprezzo emozionante:
«lo sai perché lasciammo Chicago? Sono sorpresa che non ti
abbiano raccontato la storia di questa piccola baldoria.»
Gatsby avanzò e le si pose davanti.
«Daisy, ormai il più è fatto», disse con entusiasmo. «Non può
succedere nientaltro. Devi solo dirgli la verità che non lhai mai
amato e sarà tutto spazzato via per sempre.»
Lei lo guardò senza vederlo. «Perché... potrei averlo amato...
può darsi?»
«Non lhai mai amato.»
Lei esitò. I suoi occhi si posarono su Jordan e me in una sorta di
supplica, come se finalmente avesse realizzato cosa stesse facendo
e non avesse mai voluto realmente fare qualcosa per tutto quel
tempo. Ma, adesso, era fatta. Era troppo tardi.
«Non lho mai amato» disse, con riluttanza percettibile.
«Neanche a Kapiolani?» domandò Tom dun tratto.
«No.»
Dalla sala da ballo disotto, calde ondate daria trascinavano con
sé accordi smorzati e soffocati.
«Neanche quel giorno che ti portai giù in braccio da Punch
Bowl per non farti bagnare le scarpe?» Cera una tenerezza ruvida
nel suo tono. «...Daisy?»
«Per favore, basta.» La sua voce era fredda, ma il rancore era
svanito. Guardò Gatsby. «Ecco, Jay», disse; la mano però le stava
tremando mentre provava ad accendersi una sigaretta. Improvvisamente
gettò la sigaretta e il fiammifero acceso sul tappeto.
«Oh, tu pretendi troppo!» urlò a Gatsby. «Ti amo adesso... non
è abbastanza? Non posso cambiare il passato.» Cominciò a singhiozzare
disperatamente. «Lho amato un tempo, ma ho amato
anche te.»
Il Grande Gatsby
158
Gli occhi di Gatsby saprirono e richiusero.
«Hai amato anche me?» ripeté.
«Anche questa è una bugia», disse Tom furiosamente. «Non sapeva
neanche che fosse ancora vivo. Vede... ci sono delle cose tra
me e Daisy che lei non saprà mai, cose che nessuno di noi due potrà
mai dimenticare.»
Le parole parvero aggredire fisicamente Gatsby.
«Voglio parlare con Daisy da sola», insisté. «Lei è molto agitata
ora...»
«Anche da sola, non potrei dire di non aver mai amato Tom»,
ammise con voce pietosa. «Non sarebbe la verità.»
«Certo che non lo sarebbe», acconsentì Tom.
Si voltò verso suo marito.
«Come se te nimportasse qualcosa», disse.
«Certo che mimporta. Avrò più cura di te dora in avanti.»
«Lei non capisce», disse Gatsby con un pizzico di panico. «Lei
non si prenderà più cura di lei.»
«No?» Tom spalancò i suoi occhi e rise. Aveva ripreso il controllo
di sé ora. «Perché mai?»
«Daisy la lascerà.»
«Che stupidaggine!»
«Lo farò eccome», disse lei con uno sforzo visibile.
«Lei non mi lascerà!» Le parole di Tom si abbatterono improvvise
su Gatsby. «Certamente non per un volgare imbroglione che
dovrebbe rubare lanello da metterle al dito.»
«Non ne posso più!» urlò Daisy. «Oh, per favore, andiamocene.»
«Chi è lei, dunque?» proruppe Tom. «Lei è uno della banda che ruota
attorno a Meyer Wolfshiem questo è ciò che mi è dato sapere. Ho
fatto una piccola indagine sui suoi affari... e ne saprò di più domani.»
«Potrà soddisfare la sua curiosità, vecchio mio.» Disse Gatsby
fermamente.
Capitolo Settimo
159
«So coserano i suoi drugstore.» Si voltò verso noi e parlò rapidamente.
«Lui e questo Wolfshiem rilevarono diversi drugstore
di periferia qui e a Chicago e vendettero alcol etilico senza ricetta
medica. Questo è uno dei suoi piccoli affari. Lavevo preso per un
contrabbandiere, quando lo vidi la prima volta, e non cero andato
poi tanto lontano.»
«E quindi?» disse Gatsby educatamente. «A quanto pare il suo
amico Walter Chase non ha disdegnato lentrata nel giro.»
«E lei lha lasciato nei pasticci, non è vero? Lha lasciato in carcere
per più di un mese in New Jersey. Dio! Dovrebbe sentire Walter
cosa dice di lei.»
«Venne da noi che era uno squattrinato. Fu davvero entusiasta
di farsi un po di soldi, vecchio mio.»
«Non mi chiami vecchio mio!» urlò Tom. Gatsby non rispose
nulla. «Walter poteva ricattarvi anche sulle scommesse, ma Wolfshiem
lo terrorizzò intimandogli di tenere la bocca chiusa.»
Quellinsolita eppur riconoscibile espressione si dipinse nuovamente
sul volto di Gatsby.
«Questa faccenda dei drugstore è solo un piccolo affare,» continuò
Tom lentamente «ma ora si sta occupando di qualcosa che
Walter ha avuto paura di raccontarmi.»
Osservai Daisy volgere lo sguardo terrificata tra Gatsby, suo marito
e Jordan che cominciò a bilanciare un oggetto invisibile, ma
molto interessante, sulla punta del mento. Poi tornai a voltarmi
verso Gatsby e fui sorpreso dalla sua espressione. Aveva laria e
questo va detto pur disprezzando tutte le chiacchiere infamanti del
suo giardino di chi avesse ucciso un uomo. Per qualche istante
lespressione del suo volto poté essere descritta soltanto in questa
forma fantastica.
Poi passò, e cominciò a parlare emozionato a Daisy negando
tutto, difendendo il suo nome anche da accuse che non gli erano
Il Grande Gatsby
160
state rivolte. Ma a ogni parola lei si ritraeva via via sempre più in
se stessa, finché lui non rinunciò lasciando che solo il sogno morto
continuasse a battersi, mentre il pomeriggio sfumava via, cercando
di toccare ciò che non era più tangibile, struggendosi infelice, disperandosi,
alla volta di quella voce perduta oltre la stanza.
La voce supplicò nuovamente di andare via.
«Per favore, Tom! Non ce la faccio più.»
I suoi occhi spauriti rivelavano che, qualsiasi fosse stata lintenzione
iniziale e il coraggio posseduto, ormai erano definitivamente svaniti.
«Avviatevi voi due, Daisy», disse Tom. «Con lauto del signor
Gatsby.»
Lei guardò Tom allarmata, ma lui insisté con magnanime disprezzo.
«Vai. Non ti darà noie. Credo che abbia intuito la fine del suo
piccolo e presuntuoso flirt.»
Se ne andarono senza una parola, scossi quasi alla stregua di un
incidente, isolati come fantasmi persino dalla nostra pietà.
Dopo un po Tom si alzò e cominciò a riavvolgere la bottiglia di
whisky, rimasta intatta, nel tovagliolo.
«Ne volete un po? Jordan? ...Nick?»
Non risposi.
«Nick?» mi chiese nuovamente.
«Cosa?»
«Ne bevi un po?»
«No
Mi sono appena ricordato che oggi è il mio compleanno.»
Compivo trentanni. Di fronte a me si distendeva la minacciosa
strada di un nuovo decennio.
Erano le sette quando salimmo sul coupé con lui e partimmo per
Long Island. Tom parlava incessantemente, esultando e ridendo,
ma la sua voce era come remota per Jordan e me, come lo strepito di
un estraneo sul marciapiede o il tumulto sulla soprelevata. La simCapitolo
Settimo
161
patia umana ha i suoi limiti ed eravamo contenti di lasciare che tutti
i loro tragici discorsi sfumassero con le luci della città alle nostre
spalle. Trentanni: la promessa di un decennio di solitudine, una
rada lista di uomini single da conoscere, un entusiasmo sempre più
rado, radi capelli. Ma cera Jordan al mio fianco che, a differenza di
Daisy, era troppo saggia per potersi tirare dietro sogni ormai dimenticati
da unetà allaltra. Mentre passavamo sul ponte scuro, il suo
volto pallido cadde pigramente sulla spalla della mia giacca e il duro
colpo dei trenta svanì con la rassicurante pressione della sua mano.
Così avanzavamo verso la morte nel crepuscolo rinfrescante.
Il giovane greco Michaelis, che gestiva il caffè di fianco ai cumuli
di cenere, fu il testimone principale dellinchiesta. Aveva dormito durante
la calura fino alle cinque, poi sera affacciato al garage trovando
George Wilson malato nel suo ufficio; stava davvero male, pallido
come i suoi stessi capelli chiari e tutto tremante. Michaelis gli aveva
suggerito di andarsene a letto, ma Wilson aveva rifiutato dicendo che
avrebbe perso un sacco di occasioni se lavesse fatto. Mentre il suo
ospite provava a persuaderlo, sera udito un violento fracasso disopra.
«Ho lasciato mia moglie chiusa a chiave», spiegò Wilson con
calma. «Dovrà restarci fino a dopodomani, poi partiremo.»
Michaelis era perplesso; erano stati vicini per quattro anni e
Wilson non gli era mai sembrato neanche lontanamente capace di
una simile decisione. In genere appariva come un uomo esausto:
quando non era a lavoro, sedeva su una sedia sulla porta a guardare
la gente e le auto passare lungo la strada. Quando qualcuno gli
parlava, lui invariabilmente rideva in maniera gradevole, spenta.
Apparteneva a sua moglie, non a se stesso.
Così naturalmente Michaelis provò a capire cosa fosse accaduto,
ma Wilson non volle dire una parola anzi cominciò a gettargli
occhiatacce curiose, sospettose e a chiedergli cosavesse fatto a una
Il Grande Gatsby
162
certa ora o in certi giorni. Proprio quando questultimo iniziava a
preoccuparsi, alcuni operai serano avvicinati alla porta del suo ristorante
e Michaelis ne aveva approfittato per andarsene con lintenzione
di tornare in seguito. Ma non lo fece. Suppose di essersene
dimenticato, tutto qui. Quando era uscito di nuovo, poco dopo le
sette, sera ricordato della conversazione poiché aveva udito la voce
della signora Wilson, forte e con tono di rimprovero, giù nel garage.
«Picchiami!» udì urlare lei. «Gettami a terra e picchiami, piccolo
sporco codardo!»
Un momento dopo sera precipitata nel tramonto agitando le
mani e gridando; prima che potesse muoversi dalla sua porta era
già tutto finito.
La macchina della morte, come la definirono i giornali, non
si fermò; venne fuori dalla fitta oscurità, sbandò tragicamente per
un istante e poi scomparve dietro la curva successiva. Michaelis
non era neanche sicuro del suo colore disse al primo poliziotto
che era verde chiaro. Laltra auto, quella che proseguiva in direzione
di New York, si fermò un centinaio di yarde oltre e luomo
alla guida corse indietro dove Myrtle Wilson, la cui vita era stata
violentemente spezzata, era inginocchiata per strada mescolando il
suo sangue, scuro e denso, alla polvere.
Michaelis e luomo dellaltra auto la raggiunsero per primi ma,
quando le aprirono la camicetta ancora umida di sudore, videro
che il suo seno sinistro penzolava come una patta e non fu necessario
sentire se il cuore le battesse ancora. La bocca era aperta oltre
misura, come squarciata agli angoli, quasi si fosse sforzata nellesalare
la sua tremenda vitalità, tanto a lungo racchiusa.
Notammo le tre o quattro automobili e la calca quando eravamo
ancora piuttosto distanti.
«Un incidente!» disse Tom. «Buon per Wilson, che avrà qualcosa
da fare.»
Capitolo Settimo
163
Rallentò senza alcuna intenzione di fermarsi fino a che, giunti
nei paraggi, i volti attoniti della gente sulla porta del garage non gli
fecero tirare automaticamente i freni.
«Diamo unocchiata», disse esitando «solo uno sguardo.»
Mi accorsi in quel momento di un gemito disperato che proveniva
dal garage, un lamento che, mentre lasciavamo il coupé e camminavamo
verso la porta, si tramutò nelle parole Oh, mio Dio!
ripetute più e più volte come in una litania.
«È successo qualcosa di grave, qui» disse Tom agitato.
In punta di piedi sbirciò tra la calca di curiosi nel garage illuminato
da una sola luce gialla proveniente da un canestro di metallo
che dondolava sulle loro teste. Poi emise un lamento aspro, gutturale,
e con un violento movimento delle braccia si fece largo.
La folla si ricompattò con un mormorio di protesta; ci volle
qualche istante prima che riuscissi a vedere qualcosa. I nuovi arrivati
smossero le fila e Jordan ed io fummo spinti bruscamente
allinterno.
Il cadavere di Myrtle Wilson avvolto in una coperta, e quindi in
unaltra ancora, come se avesse i brividi di freddo in quella notte torrida,
era disteso su un banco da lavoro lungo il muro e Tom, che ci
dava le spalle, era curvo su di esso immobile. Accanto a lui un poliziotto
motociclista prendeva appunti su di un piccolo blocco con
molto sudore e svariate correzioni. Allinizio non riuscii a comprendere
lorigine dei gemiti e degli acuti lamenti che riecheggiavano nel
garage spoglio poi vidi Wilson in piedi sulla soglia del suo ufficio
dondolarsi avanti e indietro, serrando le mani attorno allo stipite della
porta. Qualcuno gli parlava a bassa voce e provava a poggiargli di
tanto in tanto una mano sulla spalla, ma lui non udiva e non vedeva. I
suoi occhi ricadevano lentamente dalla luce dondolante al tavolo gravato
lungo il muro per poi tornare con nuovo impeto alla luce mentre
continuava a lamentarsi con un gemito penetrante e spaventoso.
Il Grande Gatsby
164
«Oh, mio Diiiiooo! Oh, mio Diiiooo! Oh, mio Diiiooo! Oh, mio
Diiiooo!»
Nel frattempo Tom alzò la sua testa di scatto e dopo aver scrutato
lintero garage con occhi vitrei indirizzò un mormorio incoerente
al poliziotto.
«M-a-v
» il poliziotto stava dicendo, «
o
»
«No
, r
» corresse luomo, «M-a-v-r-o
»
«Mi ascolti!» mormorò Tom, con impazienza.
«r
» disse il poliziotto, «o
»
«g
»
«g
» Vide la grossa mano di Tom dirigersi distintamente sulla
sua spalla. «Cosa vuole, buonuomo?»
«Cosa è successo
questo solo voglio sapere!»
«Unauto lha centrata. È morta sul colpo.»
«Morta sul colpo», ripeté Tom con gli occhi sbarrati.
«È corsa fuori, verso la strada. Un figlio di puttana non ha neanche
frenato.»
«Cerano due macchine», disse Michaelis «una veniva e laltra
andava, capisce?»
«Andava dove?» chiese il poliziotto solerte.
«Una da un lato e laltra di là. Bene, lei
» la sua mano si alzò
verso la coperta ma si fermò a metà strada e ricadde su un fianco
«
lei correva verso lauto che veniva da New York, lha centrata,
poteva andare a trenta o quaranta miglia allora.»
«Come si chiama questo posto?» domandò lufficiale.
«Non ha mai avuto un nome.»
Un nero malaticcio, ben vestito, si fermò a pochi passi.
«Era unauto gialla», disse «una grossa auto gialla. Nuova.»
«Ha visto lincidente?» chiese il poliziotto.
«No, ma lauto mè passata davanti sulla strada e andava a più di
quaranta. A cinquanta, sessanta.»
Capitolo Settimo
165
«Venga qui e mi lasci segnare il suo nome. Fatemi largo. Voglio
prendere il suo nome.»
Alcune parole di questa conversazione dovevano aver raggiunto
Wilson, che barcollava sulla porta dellufficio, poiché improvvisamente
emise un nuovo gemito tra i suoi lamenti disperati.
«Non cè bisogno che mi diciate che tipo di macchina era! Lo so
già che auto era!»
Guardando Tom maccorsi che i muscoli delle sue spalle si tesero
sotto la giacca. Camminò veloce verso Wilson e, fermandoglisi
di fronte, lafferrò per le braccia.
«Ti devi ricomporre», disse cercando di calmarlo con modi
energici.
Gli occhi di Wilson si appuntarono su di lui; salzò sulla punta
dei piedi e sarebbe crollato sulle ginocchia se Tom non lavesse
sostenuto.
«Ascolta», disse Tom scuotendolo leggermente. «Sono arrivato
proprio ora da New York. Ti stavo portando quel coupé di cui abbiamo
parlato. La macchina gialla che guidavo questo pomeriggio
non è mia. Mi ascolti? Non lho vista per tutto il pomeriggio.»
Soltanto il nero ed io eravamo vicini a sufficienza per ascoltare
cosa gli stesse dicendo, ma il poliziotto colse qualcosa nel tono e ci
squadrò con occhi truculenti.
«Di cosa sta parlando?» domandò.
«Sono un suo amico.» Tom voltò il capo continuando a reggere
Wilson con le mani. «Dice di conoscere lauto che
Era una macchina
gialla.»
Qualche sottile impulso continuava a influenzare il poliziotto
che guardava Tom con sospetto.
«E di che colore è la sua auto?»
«È blu, ed è coupé.»
«Siamo venuti direttamente da New York», dissi.
Il Grande Gatsby
166
Qualcuno, che ci aveva preceduto di poco, confermò la mia versione
al poliziotto che smise di interessarsi a noi.
«Ora, se mi lasciate prendere quel nome corretto
»
Sollevando Wilson come una bambola, Tom lo trascinò nellufficio,
lo fece sedere su una sedia e tornò indietro.
«Se qualcuno potesse venire qui e stare con lui!» sbottò con autorevolezza.
Rimase a guardare mentre i due uomini più vicini, che
si scambiarono uno sguardo, savviarono infelici nella stanza. Poi
chiuse la porta dietro di loro e scese il gradino evitando il tavolo
con gli occhi. Mentre mi passava accanto sussurrò «Cerchiamo di
andarcene.»
Ostentando sicurezza, con le possenti braccia di Tom che fungevano
da apripista fendemmo la folla che ancora si accalcava superando
un medico dal passo veloce con un astuccio in mano che era
stato chiamato mezzora prima in uninutile speranza.
Guidò lentamente finché non oltrepassammo la curva poi il
suo piede pigiò sullacceleratore e il coupé corse veloce nella notte.
Per un attimo lo sentii singhiozzare debolmente e vidi le lacrime
rigargli il viso.
«Che Dio maledica quel codardo!» frignava. «Non ha neanche
fermato lauto.»
La casa dei Buchanan ci apparve improvvisamente tra gli alberi
frondosi nella notte. Tom si fermò davanti al portico e guardò verso
il secondo piano dove due finestre brillavano tra i tralci di vite.
«Daisy è a casa», disse. Scendendo dallauto mi guardò leggermente
accigliato.
«Avrei dovuto portarti a West Egg, Nick. Stasera non possiamo
fare nulla.»
In lui si era manifestato un cambiamento e ora parlava gravemente,
con fermezza. Mentre camminavamo verso il portico sulla ghiaia
illuminata dal chiaro di luna sistemò tutto con brevi frasi concise.
Capitolo Settimo
167
«Telefonerò per un taxi che ti riporti a casa e, mentre aspetti, tu
e Jordan potrete andare in cucina per farvi preparare qualcosa per
cena se ne avete voglia.» Aprì la porta. «Entrate.»
«No grazie. Ma ti sarei grato se chiamassi un taxi. Aspetterò fuori.»
Jordan mi poggiò una mano sul braccio.
«Non ti va di entrare, Nick?»
«No, grazie.»
Non mi sentivo un granché e avevo voglia di restare solo. Jordan
però insistette ancora una volta.
«Sono appena le nove e mezzo», disse.
Dannazione, non volevo entrare; ne avevo avuto abbastanza di
tutti loro per un giorno intero e dun tratto anche di Jordan. Avrà
intuito qualcosa nella mia espressione poiché si voltò di scatto e
corse sotto il portico per entrare in casa. Sedetti per alcuni minuti
con la testa tra le mani finché non udii la voce del maggiordomo
che, sollevato il telefono, chiamava un taxi. Quindi passeggiai lentamente
lungo il viale con lintenzione di aspettare al cancello.
Avevo percorso venti iarde quando udii il mio nome e Gatsby
sbucò tra due cespugli sul sentiero. Dovevo sentirmi davvero male
poiché non riuscivo a pensare ad altro che alla luminosità del suo
completo rosa al chiaro di luna.
«Che fai?» chiesi.
«Me ne sto fermo qui, vecchio mio.»
Ad ogni modo, sembrava uno spregevole passatempo. Per
quanto ne sapevo, avrebbe potuto svaligiare la casa da un momento
allaltro; non mi sarei sorpreso più di tanto nel vedere delle facce
sinistre, le facce della banda di Wolfshiem, dietro di lui nelle
tenebre del boschetto.
«Cera confusione per strada?» chiese dopo un po.
«Si.»
Esitò.
Il Grande Gatsby
168
«È morta?»
«Si.»
«Lo sapevo; lho detto a Daisy che la pensavo così. È meglio che
lo shock venga tutto insieme. Ha retto piuttosto bene.»
Parlava della reazione di Daisy come se fosse stata lunica cosa
importante.
«Ho raggiunto West Egg da una via secondaria,» continuò «ed
ho lasciato lauto nel mio garage. Non credo che nessuno ci abbia
visto, ma naturalmente, non posso esserne certo.»
Ero così disgustato da lui a quel punto, che non credetti necessario
smentirlo.
«Chi era la donna?» chiese.
«Il suo nome era Wilson. Suo marito gestisce il garage. Come
diavolo è successo?»
«Beh, ho provato ad afferrare lo sterzo
» sinterruppe, e dincanto
intuii la verità.
«Guidava Daisy?»
«Si», disse dopo un istante «ovviamente dirò che al volante cero
io. Vedi, quando siamo ripartiti da New York era molto nervosa
e ha pensato che guidare lavrebbe calmata quella donna è corsa
fuori verso di noi proprio mentre stavamo incrociando unauto
proveniente dallaltra direzione. È successo tutto in un istante: mè
parso che volesse parlarci, come se ci conoscesse in qualche modo.
Beh, in un primo momento Daisy ha svoltato contro laltra auto poi
sè fatta prendere dal panico e ha sterzato nuovamente. Nellistante
in cui la mia mano ha raggiunto il volante, ho sentito lurto deve
essere morta sul colpo.»
«Lha squarciata
»
«Non parlarmene, vecchio mio», trasalì. «Ad ogni modo
Daisy
ha proseguito. Ho provato a farla frenare, ma lei non voleva, così ho
tirato il freno a mano. Poi mè crollata addosso e ho proseguito io.
Capitolo Settimo
169
Domani si sarà ripresa completamente», continuò. «Sto solo
aspettando per vedere se lui ha intenzione dinfastidirla ancora, dopo
tutte le cose spiacevoli di oggi pomeriggio. Sè chiusa a chiave in camera
sua e se proverà a darle noie, lei spegnerà e riaccenderà la luce.»
«Non la toccherà», dissi. «Non sta pensando a lei.»
«Non mi fido di lui, vecchio mio.»
«Quanto pensi di restare qui ad aspettare?»
«Tutta la notte, se necessario. Ad ogni modo almeno fin quando
non andranno a letto.»
Mi venne in mente che tutta la faccenda poteva essere inquadrata
da un altro punto di vista. Supponendo che Tom fosse venuto
a conoscenza del fatto che al volante cera Daisy, avrebbe potuto
pensare che cera una connessione avrebbe potuto pensare qualsiasi
cosa. Guardai la casa: cerano due o tre finestre accese al piano
terra e la luce rosa, della camera di Daisy, al secondo piano.
«Aspettami qui», dissi. «Vado a vedere se ci sono segnali di agitazione.
»
Tornai indietro lungo il limite del prato, attraversai la ghiaia con
passo leggero e raggiunsi la veranda. Le tende del salotto erano aperte,
vidi che la stanza era vuota. Attraversando il portico, dove avevamo
cenato una sera di giugno tre mesi prima, giunsi in un piccolo rettangolo
di luce che indovinai essere la finestra della cucina. Le persiane
erano chiuse, ma trovai una piccola fessura allaltezza del davanzale.
Daisy e Tom erano seduti ai due lati del tavolo della cucina con
una porzione di pollo freddo tra loro e due bottiglie di birra. Lui
stava parlando assortamente oltre la tavola e, nella foga, aveva poggiato
la sua mano su quella di lei.
Non erano felici e nessuno dei due aveva toccato il pollo o la
birra ma non erano nemmeno infelici. Cera uninequivocabile
intimità naturale in quella scena e chiunque avrebbe detto che stessero
complottando qualcosa insieme.
Il Grande Gatsby
170
Mentre mallontanavo, in punta di piedi dal portico udii il mio
taxi che provava a farsi strada lungo il viale buio verso casa. Gatsby
era in attesa dove lavevo lasciato.
«Va tutto bene, laggiù?» mi chiese ansioso.
«Si, tutto tranquillo.» Esitai. «Faresti meglio a tornartene a casa
e andare a dormire.»
Scosse il capo.
«Voglio aspettare qui, finché Daisy non andrà a letto. Buonanotte,
vecchio mio.»
Si cacciò le mani nelle tasche della giacca e si voltò impaziente
a scrutare la casa, come se la mia presenza guastasse la sacralità di
quella veglia. Così me ne andai e lo lasciai lì, al chiaro di luna, a
vigilare sul nulla.
171
Non riuscii a dormire per tutta la notte; una sirena da nebbia
gemeva senza sosta sullo Stretto, ed io magitai nel dormiveglia
tra una realtà grottesca e sogni cruenti e spaventosi.
Verso lalba udii un taxi risalire il viale di Gatsby e immediatamente
saltai giù dal letto e iniziai a vestirmi; sentivo di avere qualcosa da
dirgli, qualcosa da cui metterlo in guardia e la mattina sarebbe stato
troppo tardi.
Attraversando il prato vidi che la porta principale era ancora
aperta; lui poggiava su un tavolo dellingresso, prostrato dallavvilimento
e dalla notte insonne.
«Non è successo niente», disse con voce incolore. «Sono rimasto
in attesa. Verso le quattro lei è venuta alla finestra, cè rimasta
per qualche istante quindi ha spento la luce.»
La sua casa non mera mai parsa tanto grande come quella notte,
quando ne attraversammo le stanze enormi in cerca di sigarette.
Scostammo di lato le tende, che erano simili a delle cortine, tastammo
svariati piedi di muri scuri in cerca degli interruttori della luce;
a un certo punto andai a sbattere con una sorta di tonfo sui tasti
di un pianoforte spettrale. Cera una quantità incredibile di polvere,
ovunque, le stanze avevano unaria stantia, come se non fossero
state arieggiate da diversi giorni. Trovai il portasigari, con dentro
due vecchie sigarette ormai secche, su uno strano tavolo. Dopo aver
Capitolo Ottavo
Il Grande Gatsby
172
spalancato i balconi del salone principale, ci sedemmo a fumare
nelloscurità.
«Dovresti andar via», dissi. «È molto probabile che rintraccino
la tua auto.»
«Andarmene ora, vecchio mio?»
«Va ad Atlantic City per una settimana o su a Montreal.»
Non volle neanche considerare lipotesi. Non poteva lasciare Daisy
prima di aver saputo quali fossero le sue intenzioni. Si stava aggrappando
allultima speranza, non me la sentivo di scuoterlo per liberarlo.
Fu quella notte che mi raccontò la strana storia della sua giovinezza
con Dan Cody. Me ne parlò poiché Jay Gatsby sera infranto
come un cristallo contro la dura malizia di Tom e quella vecchia
fantasia segreta era ormai superata. Credo che avrebbe ammesso
ogni cosa allora, senza riserve, ma voleva parlare di Daisy.
Era la prima ragazza per bene che avesse mai conosciuto. In
svariate e incredibili circostanze era già venuto a contatto con gente
simile, ma era sempre stato tenuto a distanza, con un impercettibile
filo spinato. La trovò incredibilmente desiderabile. Andò a casa sua,
dapprima con altri ufficiali di Camp Taylor, poi da solo. Ne rimase
stupefatto. Non era mai stato in una casa tanto bella prima. Ma
ciò che donava a tutto unintensità tanto grandiosa, era che Daisy
vi abitasse. Quel contesto era naturale per lei quanto la tenda nel
campo per lui. Si trattava di un vero mistero, un sentore di camere
da letto al piano superiore più belle e fresche delle altre, di una vita
gioiosa e radiosa che si svolgeva in quei corridoi, di avventure romantiche
non ancora ammuffite o riposte nella lavanda, ma fresche,
ariose e fragranti, di lucenti automobili di quegli anni e di balli i cui
fiori facevano fatica ad appassire. Lesaltava anche il fatto che molti
uomini si fossero già innamorati di Daisy: accresceva il valore di lei
ai suoi occhi. Ne sentiva la presenza in tutta la casa, quasi che laria
fosse pervasa di ombre ed eco di emozioni ancora vibranti.
Capitolo Ottavo
173
Ma sapeva di essere entrato in casa di Daisy per puro caso. Per
quanto glorioso potesse essere il suo futuro come Jay Gatsby, al
momento era uno squattrinato giovanotto senza passato e da un
istante allaltro linvisibile mantello delluniforme sarebbe potuto
scivolargli dalle spalle. Così sfruttò al massimo il suo tempo. Raggiunse
lobiettivo con voracità e senza scrupoli. Alla fine si prese
Daisy in una calma notte di ottobre, la prese poiché in realtà non
aveva il diritto di sfiorarle la mano.
Avrebbe dovuto disprezzare se stesso, poiché laveva conquistata
con una messinscena. Non dico che avesse millantato milioni
inesistenti, ma diede a Daisy deliberatamente un senso di sicurezza;
le lasciò credere di essere del suo medesimo livello sociale, perfettamente
in grado di prendersi cura di lei. In realtà non aveva tutti
quei mezzi non aveva una famiglia agiata alle spalle ed era soggetto
al capriccio di un governo impersonale che avrebbe potuto
spedirlo ovunque in giro per il mondo.
Ma non si disprezzò e le cose non andarono come sera immaginato.
Probabilmente aveva inteso prendere ciò che poteva per poi
andarsene, ma ora scopriva di essersi lanciato nella conquista di
un ideale. Sapeva che Daisy era straordinaria, ma non era riuscito
a immaginare quanto straordinaria potesse essere una ragazza
per bene. Lei si dileguò nella sua ricca casa, nella sua ricchezza a
tempo pieno lasciando a Gatsby... il nulla. Lui si sentì il suo sposo,
tutto qui.
Quando si rividero, due giorni dopo, fu Gatsby a restare senza respiro,
a sentirsi in qualche modo tradito. Il suo portico brillava della
lussuosa luce delle stelle; il vimini del sofà scricchiolò in maniera elegante
mentre lei si voltava verso di lui e si lasciava baciare sulla bocca,
curiosa ed adorabile. Aveva preso freddo e questo le rendeva la voce
più roca e sensuale che mai; Gatsby era oltremodo consapevole della
giovinezza e del mistero imprigionati e preservati dal benessere, della
Il Grande Gatsby
174
freschezza dei tanti abiti e di Daisy splendente come largento, sicura
e orgogliosa, al di sopra delle ribollenti lotte dei poveri.
«Non so descriverti quanto fui sorpreso di scoprire che lamavo,
vecchio mio. Sperai perfino, per un po, che mi piantasse, ma non
lo fece poiché anche lei mi amava. Credeva fossi molto colto poiché
conoscevo cose differenti dalle sue... Beh, ero lì, tagliato fuori dalle
mie ambizioni, e minnamoravo ogni minuto sempre più profondamente
e allimprovviso non me ne curai più. A che serviva fare
grandi cose se mi divertivo di più raccontandole cosa avrei fatto?»
Lultimo pomeriggio, prima della partenza, sedette a lungo con
Daisy tra le braccia, in silenzio. Era una fredda giornata dautunno,
con il fuoco acceso in camera e le guance di lei arrossate. Di tanto
in tanto si muoveva e lui riavvolgeva un po le braccia; dun tratto
le baciò i capelli scuri e lucenti. Il pomeriggio aveva donato loro un
po di tranquillità, come a voler imprimere un ricordo più profondo
per il lungo periodo che avrebbero trascorso separati, dallindomani.
Non erano mai stati tanto vicini in quel mese damore, mai
comunicato tanto profondamente luno con laltra come quando
lei gli sfiorò con le labbra la spalla della giacca o quando lui le toccò
la punta delle dita, delicatamente, come per non svegliarla.
Si comportò egregiamente in guerra. Era capitano prima di andare
al fronte e, durante la battaglia delle Argonne, fu nominato
maggiore e assunse il comando dellartiglieria della divisione. Dopo
larmistizio fece di tutto per tornare a casa, ma alcune complicazioni,
o malintesi, lo spedirono invece a Oxford. Era preoccupato ora:
nelle lettere di Daisy cera una nota di nervosa disperazione. Lei
non riusciva a capire perché non tornasse. Sentiva la pressione del
mondo esterno e voleva vederlo, averlo al suo fianco ed essere rassicurata
che stesse facendo, dopo tutto, la cosa giusta.
Perché Daisy era giovane e il suo mondo artificiale profumava di
orchidee e di piacevoli, felici snobismi, di orchestre che stabilivano il
Capitolo Ottavo
175
ritmo dellanno, riecheggiando la tristezza e la suggestione della vita
in nuove melodie. Per intere notti i sassofoni guaivano il disperato
commento al Beale Strett Blues mentre centinaia di scarpette doro
e dargento si agitavano nella polvere lucente. Allora grigia del tè
cerano sempre sale che palpitavano incessantemente di questa lieve,
dolce febbre, mentre volti freschi si trascinavano qua e là, come petali
di rose soffiati sul pavimento dal suono delle tristi trombe.
In questo universo crepuscolare, Daisy riprese a muoversi con
la nuova stagione; ricevette subito dozzine di richieste di appuntamento
da altrettanti pretendenti e riprese a tirare fino allalba,
quando crollava con la collana e lo chiffon di un abito da sera aggrovigliati
tra le orchidee morenti sul pavimento di fianco al suo
letto. Ma qualcosa in di lei, ormai, reclamava incessantemente una
decisione. Voleva dare forma alla sua vita, adesso, senza più indugiare
e la decisione doveva essere presa con la forza... dellamore,
dei soldi o di questioni squisitamente pratiche e comunque a
portata di mano.
Tutto ciò si materializzò, a metà primavera, con larrivo di Tom
Buchanan. Aveva un aspetto sano e solido, sia nel fisico che nella
posizione, e Daisy ne rimase lusingata. Senza dubbio ci fu una certa
lotta e un certo sollievo. La lettera raggiunse Gatsby mentre si
trovava ancora a Oxford.
Ormai era lalba a Long Island, così andammo ad aprire le altre
finestre al piano di sotto riempendo la casa di una luce cangiante
tra il grigio e loro. Lombra di un albero si abbatteva a picco sulla
rugiada, mentre uccelli fantasma cominciavano a cantare tra le
foglie blu. Cera una brezza dolce nellaria, un alito di vento che
prometteva una giornata gradevole e fresca.
«Non credo labbia mai amato.» Gatsby si voltò da una finestra,
guardandomi con aria di sfida. «Devi tener presente, vecchio mio,
che lei era molto agitata ieri pomeriggio. Lui le aveva detto quelIl
Grande Gatsby
176
le cose terrorizzandola mha fatto sembrare un imbroglione da
quattro soldi. E il risultato è stato che lei a mala pena sapeva cosa
stava dicendo.»
Si sedette scuro in volto.
«Certo, potrebbe averlo amato, magari solo per qualche istante,
appena sposati... e aver amato me di più anche allora, capisci?»
Improvvisamente se ne uscì con una strana osservazione:
«Ad ogni modo», disse, «fu soltanto una questione fisica.»
Cosa cera da aspettarsi, se non il sospetto di una smisurata intensità
impiegata nel concepire una storia simile?
Tornò dalla Francia mentre Tom e Daisy erano ancora in viaggio
di nozze e fece un deprimente ma inevitabile viaggio a Louisville
con tutto ciò che gli restava dello stipendio dellesercito. Rimase lì
una settimana, passeggiando laddove i loro passi erano risuonati
insieme in una notte di novembre, rivisitando i luoghi più appartati
che avevano raggiunto con lauto bianca di lei. Come la casa di
Daisy gli era sembrata più misteriosa e allegra delle altre, così la
sua idea della città stessa, ora che lei era andata via, appariva velata
di malinconia.
Ripartì pensando che, se avesse cercato più a fondo, avrebbe
potuto ritrovarla; che se la stesse lasciando alle spalle. La classe
economica ora era uno squattrinato era torrida. Se ne uscì sul
vestibolo e sedette su uno strapuntino mentre la stazione sfumava
via ed edifici sconosciuti gli sfilavano affianco. Poi via tra i campi
primaverili, dove un filobus giallo gareggiò con loro per un po,
pieno di gente cui forse qualche volta in una strada a caso, era capitato
dimbattersi nella magia del pallido volto di lei.
Il binario curvò allontanandosi dal sole che calando sembrava
effondersi in una benedizione su quella città evanescente, dove lei
aveva vissuto. Tese la mano disperatamente come per afferrare un
soffio daria, salvare un frammento del luogo che lei aveva incantato
Capitolo Ottavo
177
per lui. Ma tutto ormai scorreva troppo in fretta per i suoi occhi annebbiati;
capiva daver perso per sempre la parte fresca e più bella.
Erano le nove quando finimmo di fare colazione e uscimmo sul
portico. Con la notte il tempo era cambiato bruscamente: ora laria
aveva un profumo autunnale. Il giardiniere, lultimo rimasto dei
precedenti domestici, venne ai piedi delle scale.
«Svuoterò la piscina oggi, signor Gatsby. Le foglie cominceranno
a cadere presto, e poi son sempre noie coi tubi.»
«Non oggi», rispose Gatsby. Si volse verso me quasi a scusarsi.
«Lo sai, vecchio mio, che non lho usata per tutta lestate!?»
Guardai lorologio e mi alzai.
«Dodici minuti al mio treno.»
Non volevo andare in città. Non sarei stato in grado di fare un
lavoro decente, ma cera dellaltro: non volevo lasciare Gatsby. Persi
quel treno, e poi un altro, prima che riuscissi ad andarmene.
«Ti chiamerò», dissi alla fine.
«Ci conto, vecchio mio.»
«Ti chiamerò vero mezzogiorno.»
Scendemmo lentamente i graditi.
«Suppongo che anche Daisy chiamerà.» Mi guardò con ansia,
quasi sperasse che fossi dello stesso parere.
«Lo suppongo anchio.»
«Beh
arrivederci.»
Ci stringemmo la mano e me ne andai. Appena prima di raggiungere
la siepe mi ricordai di qualcosa e mi voltai.
«Sono tutti marci», gridai oltre il prato. «Tu vali più tutti loro
messi insieme.»
Sono stato sempre felice di averlo detto. Fu lunico complimento
che gli abbia mai fatto, poiché disapprovavo tutto di lui. In un primo
momento annuì educatamente, poi il suo viso saprì in un sorriso radioso
e comprensivo, quasi fossimo stati da sempre in piacevole combutta
Il Grande Gatsby
178
al riguardo. Il suo meraviglioso completo rosa creava una macchia viva
di colore sulle scale bianche; mi tornò in mente la sera in cui, per la
prima volta, avevo messo piede in quella casa avita, tre mesi prima. Il
prato e il viale erano affollati dai volti di coloro che tiravano ad indovinare
il grado della sua corruzione e lui era rimasto ritto su quelle scale,
celando il suo sogno incorruttibile e rivolgendo loro dei cenni di saluto.
Lo ringraziai per lospitalità. Gliene eravamo sempre grati io
e gli altri.
«Arrivederci», dissi. «Ho gradito molto la colazione, Gatsby.»
Giunto in città provai per un po a inserire in listino le quotazione
di uninterminabile quantità di azioni, poi maddormentai sulla
mia sedia girevole. Appena prima di mezzogiorno fui svegliato dal
telefono e sussultai col sudore che mimperlava la fronte. Era Jordan
Baker; spesso mi chiamava a quellora poiché i suoi imprevedibili
spostamenti tra hotel, club e case private, rendevano difficile rintracciarla
in qualsiasi altro modo. Generalmente la sua voce giungeva
attraverso il filo come qualcosa di dolce e fresco, quasi come se una
zolla di un verde campo da golf fosse giunta navigando alla finestra
dellufficio, ma quella mattina sembrò dura e asciutta.
«Ho lasciato la casa di Daisy», disse. «Sono a Hempstead e andrò
giù a Southampton questo pomeriggio.»
Probabilmente era una questione di tatto laver lasciato la casa
di Daisy, ma il fatto mi seccò e la successiva osservazione mirrigidì.
«Non sei stato tanto carino con me, la scorsa notte.»
«Come avrei potuto esserlo?»
Silenzio per un momento. Poi
«Ad ogni modo
voglio incontrarti.»
«Anchio lo voglio.»
«E se non andassi a Southampton e venissi in città, oggi pomeriggio?»
«No... oggi non credo sia il caso.»
Capitolo Ottavo
179
«Molto bene.»
«È impossibile oggi pomeriggio. Vari
»
Proseguimmo così per un po e poi, improvvisamente, non parlavamo
più. Non so chi di noi riagganciò con un colpo secco, ma
so che non me ne curai. Quel giorno non avrei mai potuto parlarle
seduto a un tavolino da tè, anche se fosse stata lultima occasione.
Chiamai casa di Gatsby pochi minuti dopo, ma la linea era occupata.
Provai ancora per quattro volte; alla fine, la centralinista,
esasperata, mi disse che la linea doveva essere lasciata libera per un
chiamata interurbana da Detroit. Presi il mio orario dei treni e disegnai
un piccolo cerchio attorno a quello delle tre e cinquanta. Poi
mi sdraiai sulla sedia cercando di pensare. Era appena mezzogiorno.
Quel giorno, quando il treno si affiancò ai cumuli di cenere, mi
spostai di proposito sullaltro lato della carrozza. Immaginai che ci
potessero essere dei curiosi accalcati tutto il giorno, coi bambini alla
ricerca di macchie scure nella polvere e qualche chiacchierone che
ripeteva allinfinito laccaduto, finché il tutto non diventava sempre
meno reale persino per lui, al punto da non consentirgli più di raccontare
oltre, e la tragica fine di Myrtle Wilson sarebbe stata dimenticata.
Ora vorrei tornare un po indietro e raccontare cosa successe
al garage dopo che ce ne fummo andati, la notte prima.
Ebbero difficoltà a rintracciare la sorella, Catherine. Doveva
aver trasgredito alla sua regola di non bere, quella notte, poiché,
quando arrivò era intontita dallalcool e incapace di comprendere
che lambulanza era già partita per Flushing. Quando la convinsero,
immediatamente svenne come se quella fosse la parte più intollerabile
della faccenda. Qualcuno, gentile o curioso, la caricò sulla
sua auto e la portò alla veglia del cadavere della sorella.
Fin dopo mezzanotte, una folla cangiante lambì lingresso dellofficina
mentre George Wilson si dondolava sul divano allinterno. Per
un po la porta dellufficio rimase aperta e chiunque entrava nellofIl
Grande Gatsby
180
ficina non riusciva a trattenersi dal lanciare unocchiata. Alla fine
qualcuno disse che era una vergogna e la chiuse. Michaelis e alcuni
altri uomini rimasero con lui - allinizio quattro o cinque persone,
poi due o tre. Più tardi ancora Michaelis dové chiedere allultimo
sconosciuto di aspettare lì cinque minuti mentre lui andava al suo
locale per preparare un bricco di caffè. Dopodiché rimase lì da solo
con Wilson fino allalba.
Verso le tre il lamento incoerente di Wilson subì un cambiamento:
si calmò e cominciò a parlare dellauto gialla. Annunciò che
cera un modo per sapere a chi appartenesse e poi si lasciò scappare
che un paio di mesi prima sua moglie era tornata dalla città con la
faccia pesta e il naso gonfio.
Ma quando sentì se stesso dire queste cose, si ritrasse e prese
nuovamente a gridare Oh, mio Dio! con la sua voce lamentosa.
Michaelis fece un maldestro tentativo per distrarlo.
«Da quanto eri sposato, George? Vieni qui, prova a sederti un
istante e rispondi alla mia domanda. Da quanto eri sposato?»
«Dodici anni.»
«Non hai mai avuto figli? Vieni qui George, siediti ancora ti
ho fatto una domanda. Hai mai avuto figli?»
I coleotteri marrone scuro battevano contro la luce fioca e ogni
volta che Michaelis sentiva unauto correre lungo la strada là fuori,
aveva limpressione che fosse lauto che non sera fermata poche ore
prima. Non gli faceva piacere andare nellofficina poiché il banco da
lavoro era macchiato laddove era stato steso il cadavere, così si aggirava
a disagio per lufficio ne conobbe ciascun oggetto prima che
fosse giorno e di tanto in tanto sedeva di fianco a Wilson e provava
a calmarlo un po.
«Cè qualche chiesa dove vai ogni tanto George? Anche se non
ci vai da molto? Potrei chiamare in chiesa e chiedere al prete di
venire, potrebbe parlarti, capisci?»
Capitolo Ottavo
181
«Non vado in chiesa.»
«Dovresti avere una chiesa, George, per momenti come questo.
Dovrai pur essere stato in chiesa qualche volta. Non ti sei sposato
in chiesa? Ascolta, George, ascoltami. Non ti sei sposato in una
chiesa?»
«È successo tanto tempo fa.»
Lo sforzo per rispondere rompeva il ritmo del suo dondolio
per qualche istante restava in silenzio. Poi la stessa incoscienza,
quellaria confusa, tornava nei suoi occhi annebbiati.
«Guarda nel cassetto lì», disse indicando la scrivania.
«Quale cassetto?»
«Il cassetto
ce nè uno là.»
Michaelis aprì il cassetto più vicino alla sua mano. Non cera
nullaltro che un guinzaglio per cani piuttosto costoso fatto di pelle
con ornamenti in argento. Sembrava nuovo.
«Questo?» chiese, alzandolo.
Wilson lo fissò e annuì.
«Lho trovato ieri pomeriggio. Lei provò a darmi qualche spiegazione,
ma sapevo che cera dietro qualcosa di strano.»
«Pensi che labbia comprato tua moglie?»
«Lo teneva incartato nel suo comodino.»
Michaelis non ci vide nulla di strano e diede a Wilson una dozzina
di ragioni sul perché sua moglie avrebbe potuto aver comprato
il guinzaglio. Ma decisamente Wilson doveva aver sentito altre volte
quel genere di chiarimenti da Myrtle poiché riprese a sussurrare
«Oh, mio Dio!», di nuovo in un bisbiglio il suo consolatore lasciò
le altre spiegazioni nellaria.
«Poi lha uccisa», disse Wilson. La sua bocca si spalancò allimprovviso.
«Chi è stato?»
«Ho un modo per saperlo.»
Il Grande Gatsby
182
«Tu stai male, George», disse il suo amico. «È stato un duro
colpo per te e non sai quel che dici. Sarebbe meglio che provassi a
sederti e te ne stessi quieto fino a domattina.»
«Lha massacrata.»
«È stato un incidente, George.»
Wilson scosse il capo. I suoi occhi si strinsero e la bocca si aprì leggermente
in un accenno di Hm!, espresso con aria di superiorità.
«Lo so», disse infine «sono un credulone e non penso male di
nessuno, ma quando so una cosa, la so. È stato luomo di quellauto.
Lei è corsa fuori per parlargli e lui non sè voluto fermare.»
Anche Michaelis aveva visto la stessa scena, ma non aveva dato
un significato particolare ad essa. Credeva che la signora Wilson
stesse scappando da suo marito, non che stesse provando a fermare
unauto in particolare.
«Come avrebbe potuto essere così?»
«Lei era un demonio», disse Wilson, come se questa fosse la
risposta alla domanda. «Ah-h-h
»
Riprese a dondolarsi di nuovo e Michaelis restò in piedi, torcendo
il guinzaglio tra le mani.
«Forse hai qualche amico che posso chiamare, George?»
Questa era una speranza disperata era quasi certo che Wilson
non avesse amici: sua moglie laveva assorbito completamente. Fu
felice, poco dopo, quando notò un cambiamento nella stanza: un
po di blu sandava ravvivando alla finestra. Realizzò che lalba non
era lontana. Verso le cinque fuori fu azzurro a sufficienza per spegnere
la luce.
Gli occhi sbarrati di Wilson si voltarono sui cumuli di cenere
dove delle piccole nuvole grigie assumevano forme fantastiche spostandosi
qua e là nel debole venticello dellalba.
«Le ho parlato», mormorò dopo un lungo silenzio. «Le ho detto
che poteva imbrogliare me, ma non Dio. La portai alla finestra
»
Capitolo Ottavo
183
con uno sforzo si alzò e raggiunse la finestra sul retro poggiandoci
contro la faccia «
e dissi Dio sa cosa hai fatto, qualsiasi cosa tu
abbia fatto. Puoi prenderti gioco di me, non di Dio!»
In piedi, dietro di lui, Michaelis rimase scioccato nel constatare
che stesse fissando gli occhi del dottor T.J. Eckleburg appena
emerso, pallido ed enorme, dalle tenebre che si dissolvevano.
«Dio vede tutto», ripeté Wilson.
«Quella è una pubblicità», lo rassicurò Michaelis. Qualcosa lo
fece voltare dalla finestra e guardare indietro nella stanza. Ma Wilson
rimase lì a lungo, la faccia pressata contro la lastra di vetro,
annuendo nel crepuscolo.
Alle sei Michaelis era esausto e fu grato per il rumore di unauto
che si fermò allesterno. Era uno dei testimoni della notte prima
che aveva promesso di tornare, così preparò la colazione per tre e
lui e laltro la mangiarono assieme. Wilson era più calmo adesso e
Michaelis se ne andò a dormire; quando si risvegliò, quattro ore più
tardi, corse allofficina, ma Wilson era andato via.
I suoi movimenti si mosse a piedi per tutto il tempo successivamente
furono tracciati prima a Port Roosevelt e poi a Gads
Hill, dove comprò un sandwich che non mangiò e una tazza di
caffè. Doveva essere stanco e camminare lentamente, perché non
raggiunse Gads Hill prima di mezzogiorno. Fino a quel punto non
cerano stati problemi a spiegare come avesse impiegato il suo tempo:
cerano ragazzi che avevano visto un uomo muoversi come un
pazzo e degli automobilisti ai quali aveva lanciato sguardi strani
dal bordo della strada. Poi per tre ore scomparve dalla vista. La polizia,
in base a ciò che riferì Michaelis, cioè che aveva un modo per
scoprire la verità, suppose che avesse trascorso quel tempo girando
di officina in officina nei dintorni, chiedendo dellauto gialla.
Daltra parte non venne mai fuori un solo meccanico che lavesse
visto e forse aveva un modo più semplice e sicuro per conoscere
Il Grande Gatsby
184
ciò che voleva sapere. Verso le due e mezzo era a West Egg, dove
chiese a qualcuno la strada per casa di Gatsby. Quindi, a quel punto,
conosceva il suo nome.
Alle due Gatsby indossò il suo costume da bagno e lasciò detto al
maggiordomo che se qualcuno lavesse cercato al telefono, lordine era
di raggiungerlo in piscina. Si fermò in garage per prendere un materassino
gonfiabile che aveva divertito i suoi ospiti durante lestate e lo
chauffeur gli diede una mano a gonfiarlo. Poi diede istruzioni sullauto
aperta: non doveva essere tirata fuori in nessun caso e questo sembrò
strano poiché il parafango anteriore destro necessitava di riparazioni.
Si mise in spalla il materassino e savviò verso la piscina. A un
certo punto si fermò scivolando leggermente, lo chauffeur gli chiese
se avesse bisogno di aiuto, ma lui scosse il capo e un istante dopo
scomparve tra gli alberi che cominciavano ad ingiallire.
Non giunse alcun messaggio telefonico, ma il maggiordomo rinunciò
al suo pisolino e attese fino alle quattro - quando ormai da
tempo non cera più nessuno a cui recapitarlo, nel caso fosse giunto.
Ho idea che lo stesso Gatsby non credesse che sarebbe giunto
e forse non se ne preoccupò a lungo. Se ciò fosse vero, lui doveva
aver compreso di aver perduto il calore del vecchio mondo pagando
un prezzo troppo alto per aver vissuto tanto a lungo con un solo
sogno. Doveva aver guardato su verso un cielo strano attraverso
foglie spaventevoli e rabbrividito nel costatare quanto potesse essere
grottesca una rosa e quanto cruda fosse la luce del sole sullerba
che germoglia. Un nuovo mondo, materiale senza essere reale,
dove poveri fantasmi che respiravano sogni come aria, vagavano
senza meta
come quella figura cinerea, fantastica, che scivolava
verso lui attraverso alberi informi.
Lo chauffeur era uno dei protetti di Wolfshiem udì gli spari.
In seguito poté solo dire che non ci aveva prestato più di tanto
attenzione.
Capitolo Ottavo
185
Dalla stazione andai direttamente in auto verso casa di Gatsby e
la mia fretta ansiosa nel salire le scale fu il primo segnale dallarme
per qualcuno. Sapevano già, ne sono fermamente convinto. Quasi
senza scambiare una parola, noi quattro: lo chauffeur, il maggiordomo,
il giardiniere ed io, corremmo giù alla piscina.
Cera un debole movimento dellacqua, appena percettibile, il
flusso fresco di un lato che si faceva strada impaziente verso lo scarico
allaltra estremità. Con piccole increspature, lontani ricordi di
onde, il materassino, col suo carico si muoveva a caso nella piscina.
Un soffio di vento, che a mala pena pizzicava la superficie dellacqua,
era sufficiente a condizionare la sua rotta accidentale, col suo
fardello accidentale. Un grumo di foglie lo sfiorò facendolo girare
lentamente tracciando, come la punta di un compasso, un sottile
cerchio rosso nellacqua.
Fu dopo che ci fummo incamminati col corpo di Gatsby verso
casa, che il giardiniere vide il cadavere di Wilson poco distante
nellerba e lolocausto fu completo.
A distanza di due anni ricordo il seguito di quella giornata, della
notte e del giorno successivi, come un estenuante martellamento
di polizia, fotografi e giornalisti, che si avvicendavano senza sosta
in casa di Gatsby. Fu tesa una fune allingresso principale ed un
poliziotto lutilizzava come limite per i curiosi, ma i ragazzini scoprirono
presto che potevano entrare passando dal mio cortile e ce
nera sempre un gruppetto a bocca aperta nei pressi della piscina.
Qualcuno con modi decisi, forse un detective, usò lespressione
matto mentre si curvava sul cadavere di Wilson nel pomeriggio,
e lavventizia autorità della sua voce diede lo spunto per gli articoli
dei giornali del giorno dopo.
187
La maggior parte di quegli articoli era un incubo: circostanziali,
avidi e falsi. Quando la testimonianza di Michaelis,
nellinchiesta, mise in luce i sospetti di Wilson sulla moglie,
pensai che lintera vicenda sarebbe stata servita presto in una scabrosa
pasquinata ma Catherine, che avrebbe potuto dire qualcosa
a riguardo non dichiarò nulla. Mostrò un carattere deciso; guardò
il medico legale con occhi determinati sotto quelle sua ciglia
ridisegnate e asserì che la sorella non aveva mai visto Gatsby, che
era completamente soddisfatta del marito e non sera mai concessa
alcuna evasione. Si convinse di ciò e pianse nel suo fazzoletto, quasi
non riuscisse a sopportarne neanche il sospetto. Così Wilson fu
ridotto a uomo distrutto dal dolore di modo che il caso potesse
restare nella sua forma più semplice. E così fu.
Ma tutto ciò apparve remoto e superfluo. Mi ritrovai dalla parte
di Gatsby, da solo. Dal momento che diramai per telefono la notizia
della tragedia al villaggio di West Egg, qualsiasi congettura su di
lui, come anche tutte le questioni pratiche, furono indirizzate a me.
Allinizio ne fui sorpreso e confuso; poi vedendolo disteso in casa
immobile senza che respirasse o parlasse, ora dopo ora, crebbe in
me la consapevolezza di esserne responsabile poiché nessun altro
se ne interessava intendo quellinteresse profondo e personale cui
ciascuno ha un vago diritto, alla fine.
Capitolo Nono
Il Grande Gatsby
188
Chiamai Daisy mezzora dopo che lavevamo trovato, le telefonai
istintivamente e senza esitazione. Ma lei e Tom erano partiti
presto quel pomeriggio portando dei bagagli con loro.
«Hanno lasciato un indirizzo?»
«No.»
«Hanno detto quando sarebbero tornati?»
«No.»
«Ha qualche idea di dove possano essere? O di come possa raggiungerli?
»
«Non so. Non saprei dirle.»
Volevo far venire qualcuno per lui. Volevo andare nella stanza
dove giaceva e rassicurarlo: Ti porterò qualcuno, Gatsby. Sta tranquillo.
Abbi fiducia in me e io ti porterò qualcuno
»
Il nome di Meyer Wolfshiem non era sullelenco del telefono. Il
maggiordomo mi diede lindirizzo del suo studio a Broadway e io mi
rivolsi allufficio informazioni, ma prima che riuscissi ad avere il numero
erano passate da un pezzo le cinque e nessuno rispose al telefono.
«Potrebbe provare ancora?»
«Ho chiamato già tre volte.»
«È davvero importante.»
«Mi dispiace. Ma temo non ci sia nessuno.»
Tornai nel salone e pensai per un istante che tutti loro fossero
dei visitatori occasionali, tutti quei burocrati che improvvisamente
vi si affollavano. Eppure, mentre tiravano via il lenzuolo e guardavano
Gatsby con occhi turbati, la sua protesta continuava nel mio
cervello.
Guarda, vecchio mio, devi fare in modo di far venire qualcuno.
Devi impegnarti di più. Non posso affrontare tutto questo da solo.
Qualcuno iniziò a farmi delle domande, ma io svicolai salendomene
al piano di sopra a controllare in gran fretta i cassetti della
sua scrivania non chiusi a chiave non maveva mai detto apertaCapitolo
Nono
189
mente che i suoi genitori fossero morti. Non cera nulla soltanto
la foto di Dan Cody, simbolo di una violenza dimenticata, che mi
fissava dalla parete.
La mattina seguente mandai il maggiordomo a New York con
una lettera per Wolfshiem nella quale chiedevo informazioni e lo
esortavo a raggiungermi col primo treno. La richiesta sembrava
superflua quando la scrissi. Ero sicuro che sarebbe partito non
appena visti i giornali, come ero sicuro che sarebbe arrivato un
telegramma di Daisy prima di mezzogiorno ma non arrivarono
né il telegramma, né Wolfshiem; non venne nessuno ad eccezione
di altri poliziotti, fotografi e giornalisti. Quando il maggiordomo
mi consegnò la risposta di Wolfshiem, cominciai a provare un
senso di sfida, una sdegnosa solidarietà tra Gatsby e me contro
tutti loro.
Caro signor Carraway. È stato uno dei più terribili shock
della mia vita, ancora non riesco a credere che sia tutto vero.
Questo gesto inconsulto, compiuto da un folle, dovrebbe farci
riflettere tutti. Non mi riesce di venire subito poiché sono molto
impegnato in un affare di enorme importanza e non posso
compromettermi in questa faccenda per ora. Se cè una qualsiasi
cosa che possa fare per lei, me lo comunichi a stretto giro
con una lettera tramite Edgar. Non può immaginare come mi
senta nellapprendere una notizia simile. Sono completamente
abbattuto e fuori di me.
Sinceramente suo,
Meyer Wolfshiem
Seguiva una veloce aggiunta:
Mi faccia sapere del funerale ecc. Non conosco affatto
la famiglia.
Il Grande Gatsby
190
Quando il telefono squillò quel pomeriggio e mi fu annunciata
uninterurbana da Chicago, pensai che fosse Daisy finalmente. Ma
la linea rivelò la voce di uomo, molto debole e lontana:
«È Slagle che parla
»
«Si?» il nome non mi era noto.
«Un bel guaio, non credi? Hai ricevuto il mio telegramma?»
«Non è arrivato nessun telegramma.»
«Il giovane Parker è nei guai», disse rapidamente. «Lhanno
pizzicato mentre vendeva azioni fuori borsa. Avevano ricevuto
una circolare da New York con i numeri appena cinque minuti
prima. Ne sai niente, tu? In queste città di provincia non si sa
mai
»
«Pronto!» Lo interruppi mentre riprendeva fiato. «Ascolti
non sono Gatsby. Il signor Gatsby è morto.»
Ci fu un lungo silenzio dallaltro lato del cavo seguito da unimprecazione
poi un colpo secco e la linea fu interrotta.
Credo che fosse il terzo giorno, quando da una città del Minnesota
giunse un telegramma a firma di Henry C. Gatz. Diceva soltanto
che il mittente sarebbe partito immediatamente e di rimandare i
funerali al suo arrivo.
Era il padre di Gatsby, un anziano dallaria grave, molto debole
e sgomento, avvolto in un lungo cappotto a buon mercato che
lo proteggeva dal caldo di quel giorno di settembre. I suoi occhi
colavano in continuazione per lagitazione e quando gli presi la valigia
e lombrello di mano cominciò a tirarsi così compulsivamente
la rada barba grigia che ebbi difficoltà a fargli togliere la giacca.
Era sullorlo di un collasso, così lo condussi nella sala da musica e
mi assicurai che sedesse mentre mandavo a chiedere qualcosa da
mangiare. Non volle mangiare e con mani tremanti fece tracimare
qualche goccia di latte dal bicchiere.
Capitolo Nono
191
«Lho letto sul giornale di Chicago», disse. «Cera tutto sul giornale
di Chicago. Sono partito subito.»
«Non sapevo come raggiungerla.»
I suoi occhi, senza fissarsi su nulla, continuavano muoversi in
giro per la stanza.
«È stato un folle», disse. «Deve essere stato un folle.»
«Non prenderebbe un po di caffè?» gli suggerii.
«Non voglio nulla. Sto bene ora, signor
»
«Carraway.»
«Be, ora sto bene. Dove hanno portato Jimmy?»
Lo condussi nel salone dove giaceva suo figlio e lo lasciai lì.
Alcuni ragazzini erano saliti su per la scala e stavano sbirciando
nellingresso; quando comunicai loro chi era arrivato se ne andarono
via a malincuore.
Dopo un po il signor Gatz aprì la porta e venne fuori, la bocca
socchiusa, il volto leggermente arrossato, gli occhi che lasciavano
andare qualche timida lacrima isolata. Aveva raggiunto unetà nella
quale la morte non rappresenta più una terribile sorpresa e quando
nel guardarsi attorno, ora per la prima volta, osservò laltezza e lo
splendore dellatrio e i grandiosi saloni che vi si affacciavano e a
loro volta si aprivano in altre stanze, la sua pena cominciò a mescolarsi
ad un orgoglio reverenziale. Laiutai a raggiungere una stanza
da letto al piano di sopra; mentre si sfilava la giacca e i vestiti gli
dissi che tutte le disposizioni erano state rimandate al suo arrivo.
«Non sapevo cosa volesse fare, signor Gatsby
»
«Il mio nome è Gatz.»
«
signor Gatz. Pensavo che forse avrebbe voluto riportalo nel
West.»
Scosse il capo.
«Jimmy ha sempre preferito lEst. Ha raggiunto la sua posizione
nellEst. Era un amico del mio ragazzo, signor
?»
Il Grande Gatsby
192
«Eravamo grandi amici.»
«Aveva un grande futuro davanti, lo sa. Era solo un giovanotto,
ma aveva una gran testa.»
Si toccò il capo con decisione e io annuii.
«Se fosse vissuto sarebbe diventato un grande uomo. Uno come
James J. Hill. Avrebbe dato una mano a tirar su il paese.»
«È vero», dissi un po a disagio.
Tastò il copriletto ricamato, provando a tirarlo via dal letto, e si
sdraiò tutto rigido. Saddormentò immediatamente.
Quella notte telefonò una persona evidentemente impaurita
chiedendo di sapere chi fossi prima di rivelare il proprio nome.
«Le parla il signor Carraway», dissi.
«Oh
», parve sollevato. «Sono Klipspringer.»
Anchio ne fui sollevato poiché sembrava potesse esserci
un altro amico sulla tomba di Gatsby. Non volevo che la notizia
comparisse sui giornali attirando una folla di visitatori
così avevo invitato io stesso poche persone. Trovarle era stato
difficile.
«Il funerale sarà domani» dissi. «Alle tre, qui a casa. Mi auguro
che lei lo comunichi a chiunque possa essere interessato.»
«Oh, certo», minterruppe bruscamente. «Certo è un po difficile
che incontri qualcuno, ma se capita, lo farò senzaltro.»
Il suo tono minsospettì.
«Ovviamente lei sarà presente.»
«Beh, di sicuro ci proverò. Il motivo per cui ho chiamato
»
«Aspetti un momento», lo interruppi. «Per quale motivo non
dice che verrà?»
«Beh, il fatto è
la vera ragione è che mi trovo con alcune persone
su a Greenwich e si aspettano che io rimanga con loro domani.
In effetti cè una sorta di pic-nic o qualcosa del genere. Ovviamente
farò del mio meglio per venir via.»
Capitolo Nono
193
Non riuscii a trattenere un Huh!, e lui dové sentirmi, poiché
proseguì nervoso: «la ragione per cui ho chiamato è per un paio
di scarpe che ho lasciato lì. Mi domandavo se non fosse di troppo
disturbo chiedere al maggiordomo di inviarmele. Sa, si tratta di
scarpe da tennis, mi sento perduto senza. Il mio indirizzo è presso
B. F
.»
Non sentii il resto del nome, poiché riagganciai il ricevitore.
Dopo questa conversazione provai un certa vergogna per Gatsby
un gentiluomo al quale avevo telefonato mi lasciò intendere
che aveva avuto ciò che si meritava. Tuttavia, e questa fu una mia
colpa, si trattava di uno di coloro che si schernivano più aspramente
di Gatsby prendendo coraggio dal suo alcool e io avrei dovuto
saperlo, prima di chiamare.
La mattina del funerale andai a New York per incontrare Meyer
Wolfshiem; non mera riuscito di raggiungerlo in nessun altro modo.
La porta che aprii, su consiglio del ragazzo dellascensore, aveva una
targhetta con su scritto The Swastika Holding Company; in un primo
momento sembrava non ci fosse nessuno allinterno. Ma quando
ebbi gridato Buongiorno per varie volte invano, dun tratto scoppiò
una discussione dietro un divisorio e subito dopo da una porta interna
apparve unadorabile ebrea che mi scrutò con occhi neri e ostili.
«Non cè nessuno», disse. «Il signor Wolfshiem è andato a Chicago.»
La prima parte dellaffermazione era evidentemente falsa poiché
qualcuno piuttosto stonato aveva cominciato a fischiettare The
Rosary, allinterno.
«Per cortesia, gli dica che il signor Carraway vuole vederlo.»
«Non posso mica riportarlo indietro da Chicago, non crede?»
In quel momento una voce, indiscutibilmente quella di Wolfshiem,
chiamò «Stella!» dallaltro lato della porta.
«Mi lasci il suo nome sul tavolo», disse velocemente. «Glielo consegnerò
quando tornerà.»
Il Grande Gatsby
194
«Ma io so che è qui.»
Mosse un passo verso di me e cominciò a far scorrere le mani
indignata su e giù lungo i fianchi.
«Voi giovanotti credete di poter entrare qui con la forza quando
vi pare» mi rimproverò. «Ne abbiamo fin sopra i capelli. Se dico
che è a Chicago, è a Chi-CA-go.»
Accennai a Gatsby.
«Oh
h!» Mi guardò nuovamente. «Soltanto un istante
qual
è il suo nome?»
Scomparve. Un istante dopo Meyer Wolfshiem era ritto nel vano
della porta e mi tendeva entrambe le mani. Mi condusse nel suo ufficio
sottolineando con voce riverente che era davvero un momento
triste per tutti noi e moffrì un sigaro.
«La mia memoria corre indietro a quando lo incontrai per la prima
volta», disse. «Un giovane maggiore, appena congedato dallesercito
e ricoperto di medaglie ottenute durante la guerra. Se la passava
così male che doveva continuare a vestire luniforme poiché
non aveva i mezzi per comprarsi degli abiti civili. La prima volta che
lo vidi fu quando entrò nella sala da gioco Winebrenner sulla Quarantreesima
Strada chiedendo un lavoro. Non mangiava da un paio
di giorni. Vieni, su, mangiamo qualcosa assieme, gli dissi. Mangiò
lequivalente di più di quattro dollari in meno di mezzora.»
«Lavviò lei negli affari?» chiesi.
«Avviarlo! Sono io ad averlo fatto.»
«Oh.»
«Lho tirato su dal nulla, lho tolto da mezzo alla strada. Notai
subito che aveva un bellaspetto da giovane gentiluomo e quando
mi disse che era un Oggsfordiano capii che faceva al caso mio. Gli
offrii la possibilità di entrare nella Legione Americana dove riuscì a
salire molto in alto. Subito mi rese un lavoretto per un mio cliente
su ad Albany. Eravamo proprio così in ogni cosa
», alzò ed avvitò
Capitolo Nono
195
due dita nodose «
sempre insieme.»
Mi domandai se la loro collaborazione avesse incluso anche la
transazione delle Worlds Series del 1919.
«Ora è morto», dissi dopo un momento. «Lei era il suo migliore
amico, per questo so che verrà al suo funerale oggi pomeriggio.»
«Mi farebbe piacere venire.»
«Beh, allora lo faccia.»
I peli delle sue narici vibrarono leggermente mentre scuoteva il
capo e gli occhi gli si riempivano di lacrime.
«Non posso
Non posso compromettermi in questa faccenda», disse.
«Non cè nulla di compromettente. Ora è tutto finito.»
«Quando un uomo viene ucciso, non mi piace immischiarmi in
nessun modo. Me ne tengo fuori. Quando ero giovane era diverso:
se un mio amico moriva, non importa come, restavo con lui fino
alla fine. Potrà pensare che ciò sia sentimentale, ma io la pensavo
così: proprio fino alla fine.»
Capii che per qualche suo motivo era determinato a non venire,
così mi alzai.
«È stato al college?» chiese improvvisamente.
Per qualche istante pensai che stesse per propormi un affare,
ma si limitò ad annuire e a stringermi la mano.
«Impariamo a dimostrare la nostra amicizia per qualcuno quando
questi è in vita e non dopo che è morto», propose. «Dopodiché,
la mia regola è quella di far tutto da solo.»
Quando lasciai il suo ufficio, il cielo era diventato scuro; tornai
a West Egg sotto una pioggerellina fine. Dopo essermi cambiato
dabito, mi recai alla casa affianco e trovai il signor Gatz che camminava
avanti e indietro tutto agitato nellingresso. Il suo orgoglio
per il figlio e per le sue ricchezze continuava a crescere e ora aveva
qualcosa da mostrarmi.
Il Grande Gatsby
196
«Jimmy minviò questa fotografia.» Tirò fuori il portafogli con
dita tremanti. «Guardi qui.»
Era una fotografia della casa, rovinata negli angoli e unta da molte
mani. Mi fece notare ogni dettaglio impaziente. «Guardi qui!» e
cercava lammirazione nei miei occhi. Doveva averla mostrata così
tante volte che credo per lui fosse più reale della casa stessa.
«Me laveva mandata Jimmy. Credo si tratti di una bella foto. Si
vede tutto molto bene.»
«Davvero bene. Vi eravate visti ultimamente?»
«Venne a trovarmi due anni fa e mi comprò la casa dove vivo
adesso. Certo quando se ne scappò di casa ce la passavamo davvero
male, ma ora capisco che aveva ragione. Sapeva di avere un
grande avvenire davanti. E quando ebbe successo fu molto generoso
con me.»
Sembrava riluttante a metter via la foto e la tenne ancora per un
minuto davanti ai miei occhi esitando. Poi la ripose nel portafogli e
tirò fuori dalla tasca una vecchia copia ormai logora di un libro dal
titolo Hopalong Cassidy.
«Guardi, questo è un suo libro di quandera ragazzo. Le chiarirà
tante cose.»
Laprì dalla copertina posteriore e lo voltò per farmi vedere. Sul
risguardo cera stampata la parola Programma e la data del 12 settembre
1906. E al di sotto:
Sveglia al mattino: 6.00 A.M.
Esercizi con i pesi e scalata parete: 6.15-6.30 A.M.
Studio elettricità, etc.: 7.15-8.15 A.M.
Lavoro: 8.30-4.30 P.M.
Baseball e sport: 4.30-5.00 P.M.
Esercizi di dizione, padronanza di sé e determinazione: 5.00-6.00 P.M.
Studi per invenzioni necessarie: 7.00-9.00 P.M.
Capitolo Nono
197
Propositi Generali
Non perdere tempo da Shafter o (nome indecifrabile)
Non fumare più o masticare tabacco
Bagno un giorno si e uno no
Leggere un libro o una rivista istruttivi a settimana
Risparmiare $ 5.00 (cancellato) $ 3.00 a settimana
Comportarsi meglio coi genitori
«Mi sono imbattuto in questo libro per caso», disse il vecchio.
«Aiuta a capire tante cose, non crede?»
«Chiarisce tanti aspetti.»
«Jimmy era destinato a fare carriera. Aveva sempre dei propositi
come questi o qualcosa del genere. Si è accorto di come ci teneva
ad aprire sempre più la sua mente? È stato un grande su questo.
Una volta mi disse che mangiavo come un maiale e io lo picchiai.»
Era riluttante a chiudere il libro: leggeva ciascuna riga ad alta
voce e poi mi guardava con ansia. Credo si aspettasse che mi ricopiassi
quella lista per farne buon uso.
Poco prima delle tre arrivò da Flushing il pastore luterano e
io cominciai a guardare involontariamente fuori dalle finestre per
vedere se giungevano altre auto. Così fece anche il padre di Gatsby.
Mentre il tempo continuava a scorrere e i domestici sopraggiunti
attendevano nellatrio, il vecchio cominciò a sbattere le ciglia con
ansia e a parlare della pioggia con una vaga preoccupazione. Il pastore
lanciò più volte unocchiata al suo orologio così lo presi da
parte e gli chiesi di aspettare una mezzora. Fu del tutto inutile.
Non venne nessuno.
Alle cinque la nostra processione, di tre auto, raggiunse il cimitero
fermandosi al cancello in una fitta pioggerellina: prima il
carro funebre, orribilmente nero e bagnato, poi il signor Gatz, il
pastore ed io nella limousine e, a breve distanza, quattro o cinque
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domestici col postino di West Egg nella station-wagon di Gatsby, tutti
completamente bagnati. Mentre oltrepassavamo il cancello del cimitero
udii unauto fermarsi e poi il rumore dei passi di qualcuno che
ci seguiva tra gli schizzi nel terreno fradicio. Mi guardai attorno. Era
luomo dagli occhi di gufo che avevo trovato, una sera di tre mesi prima,
nella biblioteca di Gatsby a contemplare meravigliato i suoi libri.
Non lavevo più rivisto da allora. Non ho idea di come avesse
saputo del funerale né quale fosse il suo nome. La pioggia gli colava
dagli occhiali spessi e quando tolsero la tela di protezione dalla
tomba di Gatsby, li prese per ripulirli e poter vedere.
Provai a pensare a Gatsby per qualche istante ma era ormai
troppo lontano e riuscii soltanto a richiamare alla mente senza alcun
risentimento il fatto che Daisy non avesse inviato né un messaggio
né un fiore. Udii confusamente qualcuno mormorare «Beati
i morti bagnati dalla pioggia» e poi luomo dagli occhi di gufo disse
«Amen» con voce impavida.
Ci dileguammo veloci sotto la pioggia verso le auto. Occhi di
gufo mi parlò dal cancello.
«Non sono riuscito a venire a casa» osservò.
«Nessuno ci è riuscito.»
«Andiamo!» Sussultò. «Mah, Dio mio! Erano soliti andarci a
centinaia.»
Si tolse gli occhiali e li ripulì nuovamente, sia dentro che fuori.
«Povero figlio di puttana» disse.
Uno dei miei ricordi più vividi è il ritorno nel West a Natale,
al tempo dei corsi preparatorii e più tardi del college. Coloro che
proseguivano oltre Chicago si riunivano nella vecchia e semibuia
Union Station alle sei di una sera di dicembre con pochi amici
di Chicago, già animati dalla gaiezza delle vacanze, per dar loro
un frettoloso saluto. Ricordo le pellicce delle ragazze di ritorno da
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Miss Questo o Quello, le chiacchiere col fiato gelato, le mani che
si agitavano in alto quando si scorgeva una vecchia conoscenza, la
gara sugli inviti: Vai dagli Ordway? Dagli Hersey? Dagli Schultz?
e i lunghi biglietti verdi tenuti stretti nelle nostre mani guantate. E
alla fine le fumose carrozze gialle della linea Chicago, Milwaukee
St. Paul che parevano allegre quanto il Natale stesso, sui binari di
fianco al varco.
Quando ci inoltravamo nella notte invernale e la vera neve, la
nostra neve, cominciava ad accumularsi di fianco e a brillare contro
i finestrini, sfilavano via le fioche luci delle stazioni del Wisconsin
e savvertiva dun tratto una forza tonificante, selvaggia, nellaria.
Ne respiravamo a pieni polmoni mentre tornavamo dalla carrozza
ristorante, attraversando le fredde connessioni tra uno scompartimento
e laltro, inspiegabilmente consci della nostra identità con
quella regione, per unora unica, prima di fonderci nuovamente in
maniera indistinta con essa.
Questo è il mio Middle-West non il frumento o le praterie o
le perdute città svedesi, ma il tintinnante treno del ritorno della
mia giovinezza, i lampioni delle strade, le campanelle delle slitte
nelloscurità ghiacciata e le ombre delle corone di agrifoglio proiettate
sulla neve dalle finestre illuminate. Sono parte di ciò, a tratti
solenne per le sensazioni di quei lunghi inverni, a tratti compiacente
per essere venuto su nella casa dei Carraway in una città in cui
le dimore continuano a essere chiamate, attraverso i decenni, col
nome delle famiglie. Mi accorgo ora che questa è stata una storia
del West, dopo tutto: Tom e Gatsby, Daisy, Jordan ed io, venivamo
tutti dal West e forse avevamo tutti qualche inadeguatezza in comune
che ci ha resi sostanzialmente inadatti alla vita nellEst.
Anche quando lEst mi entusiasmava di più - quando ero nettamente
consapevole della sua superiorità rispetto alle città oltre
lOhio, noiose e cresciute a macchia dolio, rigonfie, con le loro
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interminabili maldicenze che risparmiavano soltanto i bambini e
i troppo vecchi anche allora lEst ha avuto sempre per me una
capacità di distorsione. West Egg in special modo, ancora anima
i miei sogni più fantasiosi. La immagino come una scena notturna
da El Greco: un centinaio di case, al tempo stesso convenzionali
e grottesche, rannicchiate sotto un cielo cupo, incombente, e una
luna opaca. In primo piano quattro uomini solenni in abito da sera
camminano lungo il marciapiede reggendo una barella sulla quale
è distesa una donna ubriaca in abito da sera bianco. La mano di lei,
che ciondola da un lato, brilla fredda coi suoi gioielli. Gli uomini
con aria grave entrano in una casa: quella sbagliata. Ma nessuno
conosce il nome della donna e nessuno se ne importa.
Dopo la morte di Gatsby lEst fu per me un luogo simile, spettrale,
distorto al di là della capacità di correzione dei miei occhi.
Così quando nellaria si levò il fumo azzurrognolo delle foglie friabili
e il vento prese a soffiare sulla biancheria irrigidita stesa ad
asciugare, decisi di tornare a casa.
Cera una cosa da fare prima di partire, una cosa delicata, spiacevole,
che forse sarebbe stato meglio evitare. Ma volevo lasciare
tutto in ordine e non limitarmi a sperare che quel mare, compiacente
e indifferente, spazzasse via i miei rifiuti. Incontrai Jordan e
le spiegai per filo e per segno cosa fosse accaduto quando eravamo
insieme e poi a me da solo; lei rimase ad ascoltarmi perfettamente
immobile su una grossa poltrona.
Era vestita da golf e ricordo di aver pensato che somigliasse ad
una buona illustrazione, il mento sollevato un pochino, disinvolta,
i capelli del colore di una foglia in autunno, il viso bruno come il
mezzoguanto poggiato sul ginocchio. Quando ebbi terminato mi
disse senza complimenti che era fidanzata con un altro uomo. Ne
dubitai, nonostante ce ne fossero parecchi che avrebbe potuto sposare
con un solo cenno del capo, ma finsi di esserne sorpreso. Per
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qualche istante mi domandai se non stessi facendo un errore, poi ci
riflettei su rapidamente e malzai per salutarla.
«Eppure sei stato tu a lasciarmi», disse Jordan dun tratto. «Mi
hai lasciata al telefono. Ora non me ne importa più di te, ma è stata
unesperienza nuova per me e per un po ne sono rimasta stordita.»
Ci stringemmo la mano.
«Oh, e ti ricordi
» aggiunse «
quella chiacchierata che facemmo
sul come si guida unauto?»
«Beh
non proprio.»
«Dicevi che un cattivo guidatore si sarebbe salvato finché non
ne avesse incontrato un altro? Beh, ho incontrato un altro cattivo
guidatore, non è così? Intendo dire che è stato grave da parte mia
fare un simile errore. Credevo fossi una persona piuttosto onesta,
trasparente. Pensavo fosse il tuo piccolo orgoglio.»
«Ho trentanni», dissi. «Cinque di troppo per mentire a me stesso
e chiamarlo onore.»
Non rispose. Arrabbiato e ancora per metà innamorato di lei, mi
voltai tremendamente dispiaciuto.
Un pomeriggio di fine ottobre incontrai Tom Buchanan. Passeggiava
lungo la Quinta Strada col suo fare sempre allerta, aggressivo,
le mani un po discoste dal corpo come a voler combattere
ogni interferenza, oscillava il capo bruscamente da un lato
allaltro, a seguire quei suoi occhi irrequieti. Mentre rallentavo per
evitare di superarlo si fermò e cominciò a esaminare, accigliato,
la vetrina di una gioielleria. Dun tratto mi vide e tornò indietro
tendendomi la mano.
«Come va, Nick? Non mi stringi la mano?»
«Già. Lo sai cosa penso di te.»
«Sei matto, Nick», disse veloce. «Un matto del diavolo. Non
capisco quale sia il problema.»
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«Tom», risposi «cosa hai detto a Wilson quel pomeriggio?»
Mi fissò senza dire una parola e compresi che avevo indovinato
cosa fosse accaduto in quelle ore che mancavano nella ricostruzione.
Provai a voltarmi, ma fece un passo verso di me e mafferrò il braccio.
«Gli dissi la verità», sbottò. «Era arrivato alla porta mentre stavamo
per partire e quando ordinai di rispondergli che non eravamo
in casa provò a salire con la forza. Era pazzo a sufficienza da
uccidermi, se non gli avessi detto di chi era lauto. Mentre era in
casa, continuò a poggiare la mano su un revolver che aveva in tasca
» sinterruppe in modo provocatorio. «E se pure glielavessi
detto? Quel tizio ha avuto ciò che si meritava. Gettava polvere nei
tuoi occhi come in quelli di Daisy, ma era un delinquente. Ha investito
Myrtle come tu saresti passato su un cane e non ha neanche
fermato lauto.»
Non cera nulla che potessi dire eccetto ciò che non poteva esser
detto: che non era vero.
«E se credi che non abbia avuto la mia parte di dolore
sta a
sentire, quando salii in quellappartamento e vidi quella dannata
scatola di biscotti per cane sulla credenza, mi sedetti e piansi come
un bambino. Per Dio, è stato orribile
»
Non riuscivo a perdonarlo né a compartirlo, ma compresi che ciò
che aveva fatto a suo giudizio era pienamente giustificato. Era tutto
molto assurdo e confuso. Erano tipi sbadati, Tom e Daisy sfracellavano
cose e persone per poi si ritiravano nella loro ricchezza o nella
loro sbadataggine o qualsiasi altra cosa li tenesse insieme e pretendevano
che altri rimediassero ai disastri che avevano lasciato in giro
Gli strinsi la mano; sembrava sciocco non farlo poiché mi sentii
dun tratto come se stessi parlando a un bambino. Poi entrò nella
gioielleria per comprare una collana di perle o forse soltanto un
paio di gemelli sbarazzandosi per sempre della mia delicatezza
provinciale.
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Quando partii, la casa di Gatsby era ancora vuota lerba del suo
prato ormai era alta quanto la mia. Uno dei tassisti del villaggio non
passava mai davanti al cancello senza fermarsi per un istante e puntare
il dito allinterno; forse era stato lui a portare Daisy e Gatsby a
Est Egg la notte dellincidente e forse sera inventato una storia tutta
sua. Non volevo sentirla e levitavo quando scendevo dal treno.
Trascorrevo i miei sabato sera a New York poiché quelle sue feste
scintillanti, abbaglianti, erano in me così vivide che ancora potevo
sentire la musica e le risa tenui e incessanti provenire dal giardino,
le macchine andare su e giù per il suo viale. Una notte vi sentii realmente
una vettura e ne vidi i fari fermi di fronte alla scala dingresso.
Non investigai. Probabilmente si sarà trattato di qualche ospite che,
andatosene per un po ai confini del mondo, non aveva saputo che
le feste erano finite.
Lultima notte, col baule carico e la macchina venduta al droghiere,
andai lì e guardai ancora una volta quellenorme e incoerente
disastro di casa. Sugli scalini bianchi una parola oscena, scritta da
qualche ragazzino col frammento di un mattone, risaltava al chiaro
di luna; la cancellai raschiando con la mia scarpa sulla pietra. Poi
vagai verso la spiaggia e crollai sulla sabbia.
La maggior parte dei locali più grandi lungo la costa erano ormai
chiusi ed era difficile scorgere una luce ad eccezione del luccichio
nella penombra di un ferryboat che attraversava lo stretto.
E mentre la luna saliva sempre più alta nel cielo, cominciarono a
dissolversi le case superflue finché, a poco a poco, mapparve la
vecchia isola che fiorì un tempo agli occhi dei marinai olandesi
un fresco, verdeggiante seno del nuovo mondo. Gli alberi svaniti,
quelli che avevano lasciato il posto alla casa di Gatsby, avevano un
tempo assecondato tra i sussurri lultimo ed il più grande dei sogni
delluomo; per un istante ineffabile e incantato luomo deve aver
trattenuto il fiato al cospetto di questo continente, costretto ad una
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contemplazione estetica mai compresa o desiderata, faccia a faccia,
per lultima volta nella storia, con qualcosa di commensurato alla
sua capacità di immaginazione.
E mentre ero seduto là a meditare sul vecchio, sconosciuto mondo,
pensai alla meraviglia di Gatsby quando per la prima volta aveva
scorto la luce verde allestremità del pontile di Daisy. Aveva percorso
una lunga strada fino a quel prato blu e il suo sogno gli doveva
essere sembrato così vicino che difficilmente avrebbe potuto fallire
nellafferrarlo. Non sapeva che era già alle sue spalle, da qualche
parte nelle immense tenebre oltre la città, dove i campi oscuri della
repubblica si estendono nella notte.
Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno
dopo anno si ritira davanti a noi. Ci elude poi, ma non importa domani
correremo più veloci, stenderemo le braccia ancora di più
E
un bel mattino
Così continuiamo a remare, barche contro corrente, costantemente
risospinti nel passato.
© 2013 basato sulla licenza
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